giovedì 19 maggio 2011

Lo Stato è tornato?

di Damiano Palano


In molti paesi occidentali la crisi economica globale ha per molti versi invertito una tendenza che durava almeno da quasi trent’anni. Dinanzi ai fallimenti del mercato, gli Stati sono infatti tornati a giocare un ruolo diretto nella sfera economica. Naturalmente ciò non ha comportato (e probabilmente non comporterà in futuro) un ritorno al «dirigismo» degli anni Cinquanta e Sessanta. E, d’altro canto, i governi occidentali – a cominciare da quello statunitense – hanno presentato questi interventi come misure del tutto straordinarie, determinate dalla necessità di preservare proprio l’economia di mercato. La crisi ha però messo in luce anche un fenomeno nuovo, che Ian Bremmer, nel suo La fine del libero mercato, definisce come «capitalismo di Stato». Con questa espressione, Bremmer – presidente di Eurasia Group, una società di consulenza sul rischio politico, e autore di testi come La curva J. La bussola per capire la politica internazionale (Egea) – non si riferisce naturalmente a una rinascita di economie pianificate di tipo sovietico, ma a un fenomeno diverso, la cui rilevanza aumenterà probabilmente nei prossimi decenni. Il capitalismo di Stato è in sostanza una versione aggiornata del vecchio mercantilismo, in cui le risorse economiche vengono utilizzate dalle leadership nazionali con finalità prevalentemente politiche. In questo tipo di assetto, lo Stato ha senz’altro un ruolo egemone in campo economico, ma le imprese pubbliche convivono con imprese private. È una forma di capitalismo, ma una forma in cui «l’attore economico dominante e i mercati vengono usati anzitutto a scopi politici». In altre parole, non si tratta di un ritorno verso economie pianificate, ma solo del controllo politico di economie dinamiche e in crescita costante.
Secondo l’analisi di Bremmer, il capitalismo di Stato nasce più o meno alla fine degli anni Novanta, e dunque molto prima della crisi globale del 2008. La sua manifestazione più evidente è l’affermazione sul mercato mondiale di imprese di nuovi tipo: aziende di proprietà pubblica o strettamente allineate agli interessi della leadership politica del loro paese, come le messicane Cemex e Pemex, le brasiliane Vale e Petrobras, le cinesi National Petroleum Corporation, Petro China, Sinopec e China Mobile. In gran parte, la loro logica operativa si differenzia da quella delle tradizionali imprese multinazionali, perché nel loro caso il management non risponde agli azionisti, ma più o meno direttamente ai referenti politici. Ciò che forse è ancor più significativo è però che il loro ruolo nel mercato mondiale sia cresciuto in modo massiccio e sia destinato ad aumentare ulteriormente nel prossimo futuro.
Non sempre il capitalismo di Stato implica un controllo totale sull’economia. Più spesso, l’autorità politica influisce sulla dinamica economica attraverso una molteplicità di strumenti. In prevalenza, il capitalismo di Stato utilizza grandi società pubbliche che operano nel campo del petrolio e del gas. Per avere un’idea del ruolo che giocano queste aziende è sufficiente ricordare che oggi i tre quarti delle riserve globali di greggio sono in mano a società petrolifere nazionali, come per esempio la russa Gazprom, la cinese Cnpc, l’iraniana Nioc, la venezuelana Pdsva o la brasiliana Petrobras, mentre le multinazionali private, prese nel loro complesso, producono soltanto il 10% del gas e del petrolio del mondo. L’ascesa delle compagnie pubbliche è un fenomeno recente, legato soprattutto all’incremento del prezzo del petrolio registrato negli ultimi dieci anni. I governi dei paesi produttori (come Russia, Nigeria, Venezuela, Libia, Angola, Algeria) hanno progressivamente disincentivato gli investimenti stranieri nel campo energetico e si sono invece diretti verso un ruolo più attivo dello Stato nelle attività estrattive. Ma le imprese pubbliche giocano un ruolo chiave anche in altri settori, e in questo caso gli esempi più significativi provengono dalla Cina, dove enormi aziende pubbliche operano nel campo della distribuzione dell’energia elettrica, nel settore automobilistico e in ambito finanziario. Inoltre, i capitalismi di Stato si servono anche dei ‘campioni nazionali’, ossia di imprese che rimangono in mani private ma che possono contare sul sostegno attivo del governo per conquistare una posizione dominante nell’economia nazionale. Infine, uno strumento estremamente importante per i capitalismi di Stato è costituito dai fondi sovrani: fondi gestiti direttamente dei governi, che vengono utilizzati per investire i surplus di liquidità, oltre che, soprattutto, per perseguire obiettivi politici.
Naturalmente, la formula «capitalismo di Stato» rischia di essere forse troppo riduttiva. Bremmer individua infatti i segnali (più o meno pronunciati) di una svolta in questa direzione in paesi fra loro molto diversi, non solo come Cina, Russia, Arabia Saudita, ma anche come Messico, Brasile, Venezuela, Algeria, Egitto, Ucraina e India. Ciò nonostante è difficile non riconoscere nel fenomeno individuato da Bremmer una tendenza reale, che presenta anche notevoli fattori di rischio. La crescita economica dei capitalismi di Stato è d’altronde tutt’altro che priva di aspetti problematici, e in questo senso il caso cinese è di per sé significativo. Ma, anche al di là delle peculiarità dello sviluppo della Cina, è comunque difficile pensare che il fabbisogno energetico non cresca ulteriormente nel prossimo futuro, ed è dunque molto improbabile che le risorse – economiche e politiche – di quei paesi che esportano gas e petrolio non subiscano un ulteriore incremento. Il capitalismo di Stato continuerà perciò a rappresentare una realtà importante almeno per alcuni decenni. Non sancirà certo un ritorno all’economia pianificata o la ‘fine della globalizzazione’. Ma probabilmente ci mostrerà un altro volto della globalizzazione. E riporterà ancora una volta sulla scena proprio quello Stato di cui molti osservatori avevano prematuramente diagnosticato la morte.


Damiano Palano

Ian Bremmer, La fine del libero mercato. Chi vincerà la guerra tra lo Stato e le imprese?, Gruppo 24 Ore, pp. 289, euro 25.00.




Una versione parzialmente diversa di questo testo è apparsa su "Avvenire" del 30 aprile 2011.

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