di Damiano Palano
Nella declinazione italiana del noir, la dimensione prevalente – e per molti versi caratterizzante – è quella ‘provinciale’, ma non nel significato spregiativo che questo termine può assumere. Il noir italiano, nelle sue migliori (e forse paradigmatiche) espressioni, è infatti centrato sulle atmosfere e sui personaggi della ‘provincia’, o comunque su centri che sono chiaramente connotati, ed è caratterizzato dall’uso dei dialetti o da determinati luoghi che fanno da sfondo – non puramente occasionale – alle vicende. Non è solo il caso di Sciascia o di Camilleri, ma anche quello di Fruttero & Lucentini, o, per risalire fino ai rami più nobili del giallo italiano, al Pasticciaccio di Gadda, in cui l’uso dei dialetti diventa ben più che una semplice scelta stilistica. In questo contesto, Milano tende invece a essere qualcosa di diverso, e proprio per questo viene a occupare nella storia del noir italiano un ruolo ben preciso. Senza dubbio, la Milano che fa da scenario ai romanzi di Renato Olivieri è, in gran parte, una Milano ‘provinciale’, una Milano ritratta ‘alla maniera’ di Simenon, i cui luoghi ricordano spesso la Parigi malinconica di Maigret. Ma, in generale, Milano ha rappresentato per il noir italiano qualcosa di diverso. Milano ha raffigurato infatti non la ‘provincia’, bensì l’espressione paradigmatica della ‘metropoli’: la versione italiana della giungla d’asfalto in cui si muovono balordi, criminali, prostitute, spacciatori, in cui non esistono più le regole morali della vecchia malavita e in cui i legami con la città e con la sua tradizione sono di fatto persi, recisi dall’immigrazione e dalla trasformazione urbana.
Tra i primi a cogliere questa trasformazione fu, come si sa, Giorgio Scerbanenco, che nei romanzi e nei racconti scritti nella seconda metà degli anni Sessanta, seppe scorgere tutte le potenzialità narrative del nuovo milieu metropolitano. Ma, se si presta fede a un resoconto forse non troppo affidabile, pare che Scerbanenco avesse improvvisamente intuito cosa poteva offrire il capoluogo lombardo alla letteratura di genere non leggendo le pagine della cronaca nera, ma in una sala cinematografica, davanti ai fotogrammi di Banditi a Milano. Tramutando la cronaca in narrazione, il film di Carlo Lizzani, basato sulla vicenda della cosiddetta banda Cavallero, mostrava che in fondo la Milano di fine anni Sessanta non era poi troppo diversa dalla Chicago di Al Capone, o che, quantomeno, i tempi dei ladri di polli erano finiti da un pezzo. Negli ultimi anni di vita, con i quattro romanzi della serie dedicata all’ex medico Duca Lamberti, interrotta prematuramente nel 1969, Scerbanenco, oltre a fissare alcuni dei cardini del noir italiano, ritraeva una Milano divenuta improvvisamente centro di una criminalità nuova, completamente diversa da quella del passato. Era lo stesso Duca Lamberti a chiarire la portata di questo passaggio, quando in Traditori di tutti diceva: «C’è qualcuno che non ha ancora capito che Milano è una grande città… Non hanno ancora capito il cambio di dimensioni, qualcuno continua a parlare di Milano come se finisse a Porta Venezia, o come se la gente non facesse altro che mangiare panettoni e pan meino. Se uno dice Marsiglia, Chicago, Parigi, quelle sì che sono metropoli, con tanti delinquenti dentro, ma Milano no, a qualche stupido non dà la sensazione della grande città, cercano ancora quello che chiamano il colore locale, la brasera, la pesa e magari il gamba de legn. Si dimenticano che una città vicina ai due milioni di abitanti ha un tono internazionale, non locale, in una città grande come Milano arrivano sporcaccioni da tutte le parti del mondo, e pazzi, alcolizzati o semplicemente disperati che si fanno affittare una rivoltella, rubano una macchina e saltano sul bancone di una banca gridando: Stendetevi tutti per terra, come hanno sentito che si deve fare».
I romanzi di Scerbanenco non riuscirono a creare un vero e proprio genere, e il noir italiano sarebbe diventato un genere di successo molto più tardi. Ma tra i primi lettori di Scerbanenco ci furono senz’altro registi straordinari, come Duccio Tessari e soprattutto Fernando Di Leo, che introdusse nel cinema di genere italiano un modo particolare di intendere il noir, oltre che un modo particolare di guardare a Milano. Senza dubbio, Di Leo ha impresso un’orma profonda nel cinema popolare italiano, collaborando per esempio alla sceneggiatura di classici dello ‘spaghetti western’, come Per un pugno di dollari, Per qualche dollaro in più o Una pistola per Ringo. Ma Di Leo, come regista, ha soprattutto inciso sul nuovo modo di intendere il cinema noir, influenzando non solo i film degli anni Settanta o il cinema di Quentin Tarantino, ma anche le nuove generazioni di scrittori degli anni Ottanta e Novanta. Di Leo fu infatti tra i primi a comprendere come anche in Italia fosse finalmente possibile avviare una produzione noir capace di riflettere, in presa diretta, i mutamenti, rileggendo così in chiave originale i modelli narrativi che arrivavano dagli Stati Uniti. Anche per Di Leo, Scerbanenco rimase una fonte di ispirazione fondamentale. E, sicuramente, tra i film tratti da romanzi e racconti del grande scrittore di origine ucraina, quelli firmati da Di Leo sono i più originali e riusciti. I ragazzi del massacro (1969) restituisce il mondo di Scerbanenco molto di più quanto non facciano gli altri film ispirati al ciclo del medico-investigatore Duca Lamberti, come La morte risale a ieri sera (1970) di Duccio Tessari, un film noto anche con il titolo I milanesi ammazzano al sabato, e Il caso «Venere privata» (1969) di Yves Boisset. Ma non certo perché sia più fedele al testo: in realtà il film di Di Leo si discosta in diversi punti dal romanzo. Si tratta piuttosto di una vicinanza ‘stilistica’, della capacità di rendere, anche in modo crudo, il mondo della criminalità milanese. E tutto questo è ancora più evidente in Milano calibro 9, dove Scerbanenco offre solo una suggestione, perché, a ben vedere, il film di Di Leo – forse il suo film più famoso e originale – riprende solo molto marginalmente alcuni racconti del volume omonimo.
Da un certo punto di vista, Milano calibro 9 avvia la stagione del ‘poliziottesco’, perché precede, seppur di poco, film come La polizia incrimina… la legge assolve di Enzo G. Castellari e La polizia ringrazia di Steno. Ma, senza dubbio, sono proprio i film di Fernando Di Leo – in particolare, I ragazzi del massacro, Milano calibro 9 e La mala ordina – a fissare una certa idea di Milano, come capitale di una nuova malavita, in cui emerge il ‘lato oscuro’ del boom, della crescita economica, del passaggio dall’Italia rurale a quella industriale e consumista. Proprio quell’idea di Milano che sarebbe stata uno degli ingredienti del successo del cinema poliziesco italiano. Un successo arricchito in seguito dai film ‘milanesi’ di Umberto Lenzi, come Milano rovente e il classico Milano odia: la polizia non può sparare, di Sergio Martino, come Milano trema: la polizia chiede giustizia e Morte sospetta di una minorenne, oltre che da molti altri titoli, in cui sovente la trama specificamente poliziesca andava a tingersi di colori politici. Ma un aspetto quantomeno singolare è che quei film non si limitavano a ‘registrare’ una trasformazione, a dare una veste artistica – forse distorta – a un mutamento che avveniva ‘dentro’ la società italiana. In qualche misura, infatti, quella cinematografia retroagiva sulla percezione della società. Non solo perché alcuni di quei film – ma non certo tutti, e neppure la maggior parte – propalassero una paura più o meno ingiustificata, strizzando l’occhio a giustizieri connotati politicamente. Bensì perché quei film, che adattavano scenari e trame del western al contesto contemporaneo, suggerivano anche (e forse imponevano) una certa immagine della ‘nuova’ malavita. Tanto che gli aspiranti gangster delle periferie italiane finivano col competere con i loro modelli cinematografici. Replicando (o tentando di replicare) nella realtà – come in un interminabile gioco di specchi – quanto avevano visto sul grande schermo.
Da allora, Milano è diventata una sorta di riferimento obbligato – se non certo l’unico – per il noir italiano. Forse uno scenario qualche volta poco ospitale, perché Scerbanenco e Di Leo hanno finito col costituire precedenti ingombranti. Ma, comunque, uno scenario in grado di registrare i mutamenti della società italiana e del suo mondo criminale. Ed è proprio a questa Milano che è dedicato il nuovo romanzo di Paolo Roversi, Milano criminale (Rizzoli, pp. 432, euro 18.00). Un romanzo che ripercorre le vicende della malavita milanese nel pieno della trasformazione sociale, che si avvia alla fine degli anni Cinquanta e che arriva fino al principio degli anni Settanta, quando ormai il panorama è cambiato e Milano è diventata – o almeno viene percepita – come una vera metropoli. Oggi, forse, Milano non viene più intesa come una metropoli, sia perché il suo ruolo di locomotiva dell’economia nazionale si è offuscato, sia perché le sue classi dirigenti hanno perso quella visione, quella capacità progettuale, che avevano ancora negli anni Settanta e Ottanta, sia perché, infine, del mito della vecchia ‘capitale morale’ è rimasto ben poco. Ma Paolo Roversi – che viene dalla provincia – può guardare ancora alla città della Madonnina come alla mitica Milano del boom, come al centro pulsante della vita economica del paese, in cui esplodono tutte le contraddizioni della modernità. E probabilmente anche per questo nelle sue pagine si percepisce un persistente alone romantico.
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