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martedì 19 aprile 2011

"Nel nome di Garibaldi". Un complotto italo-catalano ricostruito dallo storico Giovanni C. Cattini

di Damiano Palano


Le celebrazioni dei centocinquant’anni dell’unificazione italiana hanno riaperto il dibattito sul rapporto fra il patriottismo del Risorgimento e il nazionalismo coltivato dal regime fascista. Nel suo recente Sublime madre nostra. La nazione italiana dal Risorgimento al fascismo (Laterza, Roma – Bari, 2011), Alberto Maria Banti ha sostenuto, per esempio, che esiste una sostanziale continuità nella costruzione simbolica della ‘nazione’ italiana, benché gli obiettivi perseguiti dalle élite politiche e culturali, nei diversi periodi storici, mutino anche in modo sensibile. Com’è ovvio, non si tratta di una lettura unanimemente condivisa. Angelo D’Orsi, per esempio, ha criticato nettamente l’interpretazione avanzata da Banti, sostenendo che la Prima guerra mondiale costituisce un discrimine sostanziale fra il nazionalismo risorgimentale e il successivo nazionalismo aggressivo e imperialistico, coltivato da autori come Enrico Corradini, Alfredo Rocco e Francesco Coppola, cui il fascismo avrebbe attinto per l'elaborazione del proprio immaginario. Nonostante ci siano elementi di continuità, secondo D’Orsi è scorretto accomunare le retoriche utilizzate da questi due differenti nazionalismi. «Il discorso pubblico ‘nazionalpatriottico’», sottolinea D’Orsi, «usò una serie di figure, di elementi retorici, di argomenti reiterati, capaci di colpire l’immaginazione, dunque miti, che seppero costruire un senso comune in larga fetta della popolazione, anche quella meno adusa alla lettura, o a frequentare teatri o cinematografi». D’altronde, «gran parte di quel discorso si svolgeva nelle pubbliche vie, nelle piazze, sia collocandovi monumenti, sia celebrando ricorrenze, sia attraverso cerimonie a carattere liturgico: era la liturgia della nazione, che reclamava i suoi martiri, i suoi santi (si pensi alla figura di Garibaldi, santo anomalo, ma da tutti riconosciuto e adorato), che onorava il sangue versato, i sacrifici patiti, il dolore, la sofferenza, tutti elementi capaci di essere il cemento dell’edificio nazionale». Ma – ed è questo il punto principale della critica di D’Orsi - «il fatto che il fascismo si sia impadronito del Risorgimento, e si sia sovente presentato come il suo compimento e inveramento (tale l’opinione di Giovanni Gentile, ad esempio), non ci può indurre a gettare via il bambino con l’acqua sporca» (A. D’Orsi, Ma il Risorgimento non diventò fascista, in «TuttoLibri – La Stampa», 8 gennaio 2011, p. III).
Sicuramente, i rilievi di D’Orsi sono più che giustificati, anche perché – nella storia del nazionalismo italiano – c’è effettivamente una cesura importante, che si delinea con chiarezza negli anni a cavallo della Prima guerra mondiale. Proprio in quella fase, il patriottismo risorgimentale, connotato spesso in senso repubblicano e radicale, lascia il posto a un nazionalismo espansionista, militarista, favorevole a una svolta in senso autoritario. Probabilmente, un punto di connessione fra queste due stagioni può essere rintracciato negli scritti politici Alfredo Oriani, nella Rivolta ideale e, soprattutto, nella famosa Lotta politica in Italia: un testo, apparso originariamente nel 1892, che faceva i conti con le diverse anime del Risorgimento, ma che, nell’ultimo capitolo, annunciava all’Italia una nuova missione coloniale. Mussolini – forzando notevolmente la fisionomia reale di Oriani – dipinse lo scrittore romagnolo come uno dei ‘precursori’ del fascismo, perché anche in questo modo poteva accreditare il regime come il fedele interprete dello spirito del Risorgimento. In effetti, gli sforzi ideologici del fascismo si diressero in modo significativo verso l’appropriazione dei simboli e dei miti risorgimentali, con l’effetto di innescare un rifiuto, e forse una vera e propria rimozione, del ‘patriottismo’ in tutti i partiti che, dopo il secondo conflitto mondiale, avrebbero composto l’arco costituzionale. Il caso forse più evidente è offerto dall’appropriazione del mito di Garibaldi da parte del fascismo. Un tentativo che assunse connotazioni specifiche nelle diverse fasi della storia del regime e che venne ripreso anche nel periodo della Repubblica Sociale.
Proprio in questa direzione, offre ora un contributo estremamente interessante il volume Nel nome di Garibaldi. I rivoluzionari catalani, i nipoti del Generale e la polizia di Mussolini (1923-1926), Bfs, Pisa, 2010, di Giovanni C. Cattini. Storico dell’Univesitat de Barcelona, Cattini si occupa soprattutto della storia degli intellettuali e dell’identità culturale in Catalogna, e il suo testo Prat de la Riba i la historiografia catalana. Intel·lectuals i la crisi politica a la fi del segle XIX, Afers, 2008, ha meritato nel 2009 il Premio «Serra d’Or». Nel nome di Garibaldi non si muove però  sul terreno dei riferimenti culturali e dalla costruzione dell’armamentario ideologico del regime, perché cerca di far luce su una vicenda assai poco frequentata dalla storiografia italiana: la spedizione italo-catalana del novembre 1926, promossa da Francesc Macià e da alcuni membri delle Legioni garibaldine, capeggiati dai nipoti di Giuseppe Garibaldi. Questa spedizione – finalizzata all’indipendenza della Catalogna e al sostegno della lotta contro la dittatura spagnola di Primo de Rivera – ebbe al proprio interno anime fra loro quantomeno eterogenee, che comprendevano ex arditi, ex legionari fiumani, repubblicani, socialisti e anarchici. E, probabilmente, proprio una simile eterogeneità ha reso difficile inquadrare la spedizione catalana all’interno delle interpretazioni più consolidate.
La ricostruzione di Cattini si muove seguendo due percorsi differenti, perché, per un verso, l’attenzione si concentra sugli eventi catalani, mentre, per l’altro, vengono affrontate le vicende del ‘garibaldinismo’, tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del XX secolo. Sotto quest’ultimo aspetto, Cattini esamina in particolare gli sviluppi del movimento garibaldino dopo la morte del Generale, la cui eredità fu rivendicata dai figli e, soprattutto, dai nipoti dell’«eroe dei due mondi». «Il garibaldinismo» - scrive a questo proposito Cattini - «non si articolò mai in un partito politico. Fu però un movimento vivo nel seno della società italiana; rivendicava i valori del volontariato, dell’intervento patriottico e democratico» (p. 22). Tra i momenti importanti in cui emerse l’interventismo democratico, la spedizione in Francia del novembre 1870, in cui Garibaldi (ormai sessantatreenne) fu accompagnato dal quarto figlio Ricciotti, ebbe un ruolo particolarmente significativo. Proprio in quell’occasione, Ricciotti – il cui nome onorava la memoria di Nicola Ricciotti, patriota mazziniano giustiziato dalle autorità borboniche nel 1844, dopo la fallita spedizione in Calabria dei fratelli Bandiera – si impose infatti come l’erede destinato a ricevere il testimone di difensore della libertà dal padre ormai anziano. Sposatosi con Constance Hopcraft a Londra, Ricciotti ebbe quindici figli, al primo dei quali fu assegnato il nome del nonno. Oltre alla difesa del ruolo politico del Generale, Ricciotti si impegnò in una serie di speculazioni finanziarie e, nonostante il vitalizio statale, si trovò spesso alle prese con i debiti.
Al di là di questi aspetti, il mondo del XX secolo lasciava poco spazio al fenomeno del ‘garibalidinismo’, almeno per come era stato fino ad allora inteso. Ma il fenomeno continuò a sopravvivere, assumendo nuovi connotati. Nel corso dei primi mesi della Prima guerra mondiale, Peppino Garibaldi – il primogenito di Ricciotti – ottenne dalle autorità francesi il permesso di  formare una Legione garibaldina, all’interno della Legione straniera, composta in larga parte di volontari italiani. Ed esaminando i tratti del volontariato garibaldino di questo periodo emergono già le caratteristiche che avrebbe presentato  la spedizione in Catalogna nel 1926. Come scrive Cattini, «erano presenti delle grandi contraddizioni tra una minoranza di volontari politicizzati, mossi da ragioni idealiste, e una maggioranza di volontari costituita da persone alla ricerca dell’avventura: marginali, déclassé o, in alcuni casi, anche semplici delinquenti comuni» (p. 29).
Dopo la fine della Prima guerra mondiale, il garibaldinismo subì un’ulteriore trasformazione, ma fu soprattutto l’avvento del fascismo a innescare un mutamento di rotta. Dopo il 1918, si era formata in Francia l’Union des garibaldiens survivants de l’Argonne et des volontaires italiens en France, associazione di veterani presieduta da Peppino Garibaldi. L’anima principale rimaneva comunque Ricciotti, il quale, nel 1923, diede vita anche a due associazioni parallele di volontari, conosciute con il nome di Avanguardie garibaldine. Queste Avanguardie non avevano finalità politiche dirette, ma l’arrivo in Francia, nella primavera-estate del 1923, di molti attivisti sindacali e politici espatriati dall’Italia in seguito alle violenze del nascente regime fascista, finì col radicalizzarne gli obiettivi. Così, già nel 1924, le Avanguardie garibaldine – con il consenso, in particolare, di Giuseppe, Sante e Ricciotti junior - assunsero una connotazione apertamente antifascista (e per questo Ricciotti senior, il padre dei fratelli che le guidavano, ne prese invece le distanze). Le autorità fasciste iniziarono a sorvegliare con attenzione le attività delle Avanguardie, e in particolare quelle del loro leader Ricciotti. La disastrosa situazione finanziaria di quest'ultimo doveva renderlo però ricattabile, e il governo italiano – grazie soprattutto all’intervento dell’ambasciatore in Francia Romano Avezzana – pagò in effetti i debiti di Ricciotti, in cambio dell’impegno a mutare la linea delle Avanguardie in senso favorevole al fascismo. In realtà, Ricciotti mantenne sempre un ruolo ambiguo. «Caratteristica di Ricciotti Garibaldi», scrive Cattini, «era la sua doppiezza, il carattere cospirativo e oscuro portato a doppi e tripli giochi. Poteva offrire adesioni al fascismo e, allo stesso tempo, lanciare proclami antifascisti alle decine di persone che affollavano le sezioni garibaldine in tutta la Francia imprimendo al movimento una fisionomia nettamente antifascista e di sinistra» (p. 82). I connotati antifascisti delle formazioni garibaldine – che si erano nel frattempo tramutate in Legioni garibaldine, assumendo obiettivi politici – dovevano d’altronde essere rafforzati dallo sdegno per le elezioni del 1924 e per l’assassinio di Giacomo Matteotti. Ricciotti Garibaldi divenne così un punto di riferimento per le opposizioni antifasciste, benché continuasse la collaborazione con il governo italiano.
Fu proprio in questo periodo che il garibaldinismo si incontrò con la causa catalana. La Prima guerra mondiale ebbe anche l’effetto di radicalizzare le rivendicazioni autonomiste catalane. In particolare, Francesc Macià, ex militare, assunse un ruolo di primo piano, soprattutto perché avvicinò alla causa del nazionalismo radicale catalana i settori popolari e il mondo sindacale. Con il passare degli anni, Macià iniziò a muoversi su due piani differenti: da un lato, quello dell’attività politica legale, in quanto leader della Federació democratica nazionalista, dall’altro quello dell’azione illegale, che lo vide dar forma a un’organizzazione paramilitare indipendentista. Il successo del movimento indipendentista e l’alleanza fra i tre nazionalismi storici dello Stato spagnolo furono alcuni degli aspetti all’origine della reazione che condusse al colpo di Stato di Primo de Rivera, nel settembre 1923.  Macià emigrò in Francia, dove iniziò a riorganizzare l’opposizione catalana, ma dove, soprattutto, prese a progettare un piano insurrezionale, che, dopo anni di preparazione, venne fissato per l’autunno del 1926. E fu la necessità di disporre di elementi preparati che indusse Macià a inquadrare nelle fila catalane veterani italiani della Prima guerra mondiale, personaggi come Arturo Rizzoli, eroe di guerra ed ex legionario fiumano al seguito di D’Annunzio, che divenne il responsabile per il reclutamento degli italiani.
Il 3 novembre, proprio alla vigilia della spedizione di Macià, la stampa francese svelò però la scoperta di un complotto ordito da rivoluzionari italiani e spagnoli, e due giorni dopo rivelò all'opinione pubblica lo scandalo «Garibaldi-Macià». La campagna di stampa e il processo che ne seguirono ebbero al centro, naturalmente, la ricerca del colpevole della delazione. La pista italiana fu quella largamente privilegiata, anche in virtù delle personalità torbide (e ricattabili) che erano andate a ingrossare le truppe guidate da Macià. Ma fu soprattutto Ricciotti a essere indicato come il principale responsabile del tradimento. Nel suo lavoro, Cattini considera con estrema cura tutte le ipotesi, e tende a mettere in discussione spiegazioni eccessivamente semplicistiche. Certo nel gruppo degli italiani, i potenziali delatori erano numerosi, ma probabilmente Ricciotti non fu l’unico responsabile. E non si può escludere neppure che persino negli ambienti catalani – per leggerezza, più che per premeditazione – la notizia della spedizione fosse stata tenuta tutt’altro che riservata. D’altronde, il Josep Tovira, un esponente del movimento indipendentista, affermava già allora, rivolgendosi ai compagni: «Nessuno di voi riuscì a trattenersi dal chiacchierare. La spedizione era un segreto proclamato ai quattro venti. Tutti, prima di convertirvi in accusatori degli altri, dovreste fermarvi e pensare se confessaste la vostra partenza a qualcuno e le finalità della stessa. Ho raccolto varie testimonianze e ho potuto constatare che siamo pochissimi a non aver parlato» (p. 235).
Ma il lavoro di Cattini non punta tanto a ricostruire le responsabilità effettive, quanto a riportare l’attenzione su un intrigo spesso dimenticato, e invece estremamente interessante. Interessante sia per comprendere le traiettorie del movimento indipendentista catalano, che da quel momento trovò in Macià una delle figure chiave, sia per cogliere come lo scandalo Macià-Garibaldi influì sull’uso dei servizi segreti da parte del fascismo. Ma interessante anche per ripercorrere – senza infingimenti – le reali traiettorie del garibaldinismo, su cui il rispetto per la memoria dell’«eroe dei due mondi» ha spesso consigliato di calare un velo.
La scomparsa di Ricciotti Garibaldi – nel settembre del 1951 – contribuì senz’altro a gettare nell’oblio il suo passato così poco lusinghiero. «Gli anni del dopoguerra» - scrive infatti Cattini concludendo il volume – «consolidarono il mito di un garibaldinismo democratico che aveva conosciuto i suoi momenti migliori con l’intervento antifascista nella Guerra civile spagnola e nella Resistenza italiana, lontano da quella vox populi secondo la quale: ‘Il popolo dice che i Garibaldi sono come le patate, poiché il buono sta sotto terra, mentre ciò che non serve sta sopra. Io aggiungerei che se l’Eroe tornasse in vita e si rendesse conto di come è stato disonorato il suo nome dai propri nipoti, chiederebbe di essere sotterrato alla profondità di cento metri'» (p. 247).


Damiano Palano


Giovanni C. Cattini, Nel nome di Garibaldi. I rivoluzionari catalani, i nipoti del Generale e la polizia di Mussolini (1923-1926), Bfs, Pisa, 2010, pp. 256, euro 20.00.


"Nel nome di Garibaldi" su Ibs.it


Giovanni C. Cattini, El gran complot. Qui va trair Macià? La trama italiana, Ara llibres, 2009, pp. 363.

http://www.arallibres.cat/cont/cataleg/cataleg_araLlibres_fitxa_cat.php?idField=324&table=catalogo




Giovanni C. Cattini insegna storia contemporanea alla Facultat de Geografia i Història dell'Universitat de Barcelona. È autore, tra l'altro, di "Historiografia i catalanisme. Josep Coroleu i Inglada (1839-1895)" (Afers, 2007); "Prat de la Riba i la historiografia catalana. Intel·lectuals i crisi política a la fi del segle XIX" (Afers, 2008). Per BFS edizioni è stato collaboratore del "Dizionario biografico degli anarchici italiani" e ha firmato la prefazione alla nuova edizione di Abel Paz, "Durruti e la Rivoluzione spagnola" (BFS-Zero in Condotta-La Fiaccola, 2010). Oltre alla partecipazione ad opere collettanee sulla storia degli intellettuali, dell'identità culturale e della Guerra civile in Catalogna, collabora a diverse riviste di storia contemporanea, tra le quali «Spagna Contemporanea».

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