di Damiano Palano
Quando Napoleone diceva che «le oligarchie non cambiano mai d’opinione», perché «il loro interesse è sempre lo stesso», riprendeva un motivo classico del pensiero democratico. Uno dei grandi compiti che i teorici sette e ottocenteschi assegnavano alla rivoluzione democratica era infatti proprio l’eliminazione delle oligarchie. Il timore era che alcuni gruppi, piccoli ma potenti, potessero utilizzare gli strumenti (soprattutto economici) a loro disposizione per ‘svuotare’ le istituzioni democratiche. E per vanificare così l’aspirazione all’autogoverno popolare. Ma, come sappiamo, si trattava di un obiettivo che le democrazie occidentali avrebbero raggiunto solo molto parzialmente. Tanto che, ancora oggi, la progressiva eliminazione del potere oligarchico rimane una delle grandi «promesse non mantenute» della democrazia»: una delle originarie speranze democratiche, ‘tradite’ dalle democrazie reali, che Norberto Bobbio elencava in un suo ormai quasi classico intervento.
Osservate dalla prospettiva contemporanea, non tutte le «promesse non mantenute» hanno per noi lo stesso valore. E, forse, non è neppure così deprecabile che almeno alcuni di quegli obiettivi non siano stati effettivamente conseguiti. Ciò non riguarda però il ruolo delle oligarchie, la cui ombra si distende sempre più – e sempre più minacciosamente – sulle nostre democrazie. Non senza motivo, dunque, il tema è collocato al centro delle letture di Biennale Democrazia, raccolte in un volume curato da Pier Paolo Portinaro, L’interesse dei pochi, le regioni dei molti (Einaudi, pp. 261, euro 18.00). «Che a esercitare il potere siano, anche nelle società democratiche, delle minoranze organizzate», scrive infatti Portinaro, «è un dato incontestato». Un dato che non crea particolari problemi alla visione strettamente liberale del processo democratico. Il ruolo delle minoranze è infatti un dato con cui la teoria liberale della democrazia ha fatto i conti da parecchio, almeno a partire da Joseph A. Schumpeter, che ridefinì la democrazia come un metodo per scegliere la leadership, grazie a elezioni competitive. I problemi nascono invece dal rapporto fra l’insidia oligarchica e la democrazia costituzionale. Quest’ultima, infatti, è «una forma esigente di democrazia, normativamente assai più esigente della democrazia liberale», perché «non si limita a presupporre e promuovere il pluralismo sociale e politico, pretende anche di disciplinarlo». E, in questo senso, l’antagonismo fra «l’interesse dei pochi» e le «ragioni dei molti» non può che diventare sempre più lacerante.
I materiali raccolti nel volume forniscono interpretazioni diverse di questo fenomeno. Si tratta, per esempio, di letture che puntano a collocare il rapporto fra l’«interesse dei pochi» e le «ragioni dei molti» nel contesto di mutamenti politici complessi, come fanno Massimo L. Salvadori, Luciano Canfora, o nel quadro delle molteplici trasformazioni contemporanee (fra gli altri, Pierpaolo Donati, Ernesto Galli della Loggia, Gian Enrico Rusconi, Nadia Urbinati). Naturalmente, queste riflessioni non guardano all’Italia con troppo entusiasmo. Non solo per i segnali che, a vari livelli, sembrano condurre verso una deriva oligarchica. Ma anche perché, come osserva nel volume Lorenzo Ornaghi, «ogni discorso sulle élite in Italia e sul loro effettivo ruolo tra politica e società continua a essere il racconto, se non di una ‘assenza’, di una possibilità che, sempre auspicata o sognata, è rimasta inafferrabile o compiuta».
Ma è importante ricordare - come fa soprattutto Carlo Galli – che la democrazia moderna è «una forma politica difficile, contraddittoria, fragile». È una forma difficile, perché richiede che esistano – e vengano conservati – presupposti tutt’altro che scontati. È una forma contraddittoria, perché «in essa manca nientemeno che il popolo», dal momento che «conosce il popolo solo come energia, come istanza originaria, rivoluzionaria, solo nel momento costituente». Ma, soprattutto, è una forma storicamente fragile, resa ancora più fragile, al principio del XXI secolo, da fenomeni nuovi, come la ‘mobilitazione totale’ della globalizzazione e come la perdita della capacità degli Stati tanto di controllare i flussi economici e finanziari, quanto di ‘contenere’ le dinamiche culturali (e di ricondurle entro ben definite identità nazionali). La sfida che proviene dall’esterno – nella forma del terrorismo e della guerra – è solo l’aspetto più evidente delle difficoltà con cui le democrazie contemporanee – ossia, gli Stati democratici occidentali – si trovano alle prese. «Questo dilagare del conflitto» - osserva infatti Galli - «mette sotto stress la democrazia moderna, che nasce insieme allo Stato moderno e che ha sempre bilanciato l’obbligo di questo fornire sicurezza con la richiesta di libertà, di emancipazione, di diritti. Invece, oggi, proprio nel momento in cui si manifesta la sua debolezza davanti al conflitto e alla violenza, lo Stato si mostra in preda a una ossessione per la sicurezza, che – se non inverte la tendenza a reagire al crescere (reale o percepito) della violenza con progressive restrizioni della libertà – alla democrazia lascerà ben poco spazio: si affacciano nuovi conformismi e nuovi autoritarismi, nuove imposizioni di ‘identità’ obbligatorie, nuove e immediate forme di potere che fanno leva sulla paura (anche producendola) e non certo sulla libertà o sulla virtù civica, sostituita da una cupa chiusura dei cittadini su se stessi». E non si tratta solo di un’erosione che proviene dal fuori, dall’esterno delle democrazie, ma di un processo che investe – in profondità – anche il dentro delle istituzioni democratiche. Parallelamente, infatti, «le istituzioni liberaldemocratiche, rappresentative e di garanzia, sono travolte dalle nuove forme che la politica assume: populismo, plebiscitarismo, fittizie mobilitazioni di massa contro fittizi nemici inventati dai poteri politici ed economici in modo che i cittadini non si sentano del tutto assoggettati e impotenti davanti al governo reale delle ‘cricche’ economico-affaristiche».
Dinanzi a un quadro tanto desolante, un incondizionato ottimismo apparirebbe del tutto gratuito. Sorse, si può cominciare a pensare pragmaticamente al futuro della democrazia partendo dalla base della società. Partendo cioè, come suggerisce Portinaro, dall’attivazione di «risorse quali la solidarietà, il senso di responsabilità e la razionalità deliberativa». Simili risorse, osserva però Portinaro, possono diventare davvero fruttuose solo mediante riforme in grado di «imprimere il necessario dinamismo al principio di sussidiarietà». In altre parole, è necessario pensare a misure che, da un lato, evitino che il principio di sussidiarietà si trasformi «in un dispositivo paralizzante o in una formula di legittimazione di decisioni calate dall’alto». E che, dall’altro, consentano di fornire un sostegno reale alla democrazia, contro le derive oligarchiche e tecnocratiche. Al di là dei progetti, ciò che è evidente – e non soltanto in Italia – è che, come scrive ancora Galli, «la democrazia rischia di uscire trasformata in una democrazia della sicurezza, delle identità (delle civiltà, delle culture) in conflitto, delle ‘radici’ da riscoprire, del controllo sociale e del dominio sulla vita biologica della persona, del plebiscito autoritario, dell’ignoranza acritica, dell’apatia e del risentimento, soprattutto, in una democrazia del mercato». Una democrazia, dunque, sempre meno simile a quella che abbiamo conosciuto nel Novecento. E sempre più somigliante, invece, a una «semi-democrazia» o a una «non-democrazia».
Damiano Palano
Damiano Palano
P. Portinaro (a cura di), L’interesse dei pochi, le ragioni dei molti. Le letture di Biennale Democrazia, introduzione di Gustavo Zagrebelsky, Einaudi, pp. 261, euro 18.00.
Mercoledì 13 aprile si alza il sipario sulla seconda edizione di Biennale Democrazia, la manifestazione culturale presieduta da Gustavo Zagrebelsky e organizzata dalla Città di Torino in programma a Torino fino al 17 aprile. Intitolato “Tutti. Molti. Pochi.” l’appuntamento è quest’anno dedicato al rapporto fra “il potere di tutti”, proprio della società democratica, e “i poteri di pochi”, cioè la crescente influenza esercitata dalle oligarchie nella nostra vita pubblica.
A dare ufficialmente il via alla rassegna sarà una Lectio Magistralis del Governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, che salirà sul palco del Teatro Carignano alle ore 15 di mercoledì 13 aprile, insieme a Gustavo Zagrebelsky.A seguire alle ore 21,30 i riflettori di Biennale Democrazia si accenderanno al Palaolimpico Isozaki, dove sarà di scena Roberto Benigni con “Tutto Dante – VI Canto del Purgatorio”, spettacolo a cui i torinesi potranno assistere gratuitamente.
Per il programma completo:
http://biennaledemocrazia.it/
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