di Damiano Palano
La notorietà di Francis Fukuyama nasce da un articolo pubblicato nel 1989 sulla rivista «The National Interest» ed è legata principalmente alla formula della «fine della storia». Una formula così evocativa da diventare una sorta di slogan, rimbalzato da editorialisti e commentatori da un capo all’altro del mondo. E, ovviamente, una formula destinata a trovare più avversari che sostenitori. La tesi che sosteneva il discorso di Fukuyama era piuttosto semplice, anche se si basava su una serie di passaggi (e di rimandi teorici) non sempre espliciti. Secondo lo studioso nippo-americano, con il 1989 e il crollo del blocco sovietico, la «Storia» era finita. Ma quella di cui parlava non era, naturalmente, la storia intesa come ininterrotta successione di eventi, scoperte scientifiche e guerre, ma la «Storia» come il «processo unico e coerente, che tiene conto delle esperienze di tutti i popoli di tutti i tempi». Si trattava, in altre parole, della visione hegeliana della Storia, una visione in cui il corso degli eventi ha una direzione ben precisa e, soprattutto, un senso specifico, ossia la piena realizzazione dello ‘Spirito’ nella società. Quando evocava l’immagine della ‘fine della Storia’, Fukuyama puntava dunque a mostrare come nel 1989 l’«evoluzione ideologica» dell’umanità avesse raggiunto il culmine, perché proprio nei giorni della caduta del Muro berlinese era venuto definitivamente l’ultimo grande avversario ideologico del progetto liberaldemocratico. Dopo quelle giornate fatali, la democrazia liberale aveva posto il sigillo definitivo sulla propria vittoria. E, così, Fukuyama poteva affermare che la Storia era davvero finita in quei giorni, così come Hegel aveva sostenuto che la Storia si era conclusa nel 1806, il giorno della battaglia di Jena, quando gli ideali delle rivoluzioni americana e francese avevano definitivamente sconfitto il mondo dell’Antico regime e i suoi principi ideologici.
Dall’articolo del 1989 prese forma un cospicuo volume, La fine della Storia e l’’ultimo uomo (Rizzoli, Milano 1996), in cui Fukuyama riprendeva e articolava ulteriormente la propria tesi, esplicitando meglio le coordinate filosofiche del discorso (che rimandavano a Hegel e alla lettura di Kojève, oltre che a Platone, Tocqueville e Nietzsche). Ma il dibattito successivo si doveva concentrare quasi esclusivamente sullo slogan della ‘fine della Storia’, e il risultato è stato – quasi inevitabilmente – di semplificare ulteriormente una formula scheletrica, trasformata in una vera e propria caricatura. La storia – hanno così replicato a Fukuyama molti critici (in modo più o meno meditato) – non è finita, perché continueranno a esserci conflitti, guerre, rivoluzioni e trasformazioni, ossia quelle dinamiche che da sempre contrassegnano la vicenda umana. E, soprattutto, non è vero che la liberaldemocrazia abbia sconfitto i propri avversari, perché – osservavano gli avversari di Fukuyama – il ‘fondamentalismo islamico’ appare fortemente ostile al progetto liberaldemocratico e non appare affatto aver perso la propria forza dopo il 1989. Anche per questo, la tesi dello «scontro delle civiltà», proposta da Samuel Huntington, è stata spesso intesa come un’alternativa radicale all’idea della «fine della Storia». E, in qualche modo, è effettivamente così, sebbene le due analisi si pongano a livelli di analisi differenti e condividano alcuni presupposti di fondo. Ma, forse, il pensiero di Fukuyama può essere più propriamente ricondotto – come ha sostenuto per esempio Danilo Breschi (Per un liberalismo tragico. Da Fukuyama a Clint Eastwood, «Rivista di politica», n. 3, 2010) – a una sorta di «liberalismo tragico», ossia di un liberalismo consapevole della tragicità della Storia e delle scelte politiche.
A ventidue anni di distanza dalla pubblicazione dell’articolo che ne ha fatto una sorta di celebrità dell’intelligentzia planetaria, Fukuyama ha modificato la propria posizione intorno a diversi punti. In primo luogo, ha preso le distanze dai circoli neo-conservatori. Inoltre, ha iniziato a considerare in modo più problematico l’avanzata della democrazia. L’esperienza delle guerre in Afghanistan e Iraq, per esempio, ha indotto Fukuyama a dare maggiore importanza agli aspetti istituzionali che possono sostenere la democratizzazione, e perciò – in un testo tradotto in italiano con il titolo Esportare la democrazia. State-building e ordine mondiale nel XXI secolo (Lindau, Torino 2005) – ha sostenuto che il compito delle potenze occidentali dovrebbe essere, più che ‘esportare’ la democrazia, ‘esportare’ il modello dello Stato moderno: un modello costituito da istituzioni solide e in grado di garantire il rispetto del diritto e l’ordine interno. «Dopo l’11 settembre il problema centrale della politica globale», ha scritto per esempio, «non sarà quello di diminuire la statalità, ma di costruirla», perché «per le singole società e per la comunità mondiale la dissoluzione dello stato è un preludio non all’utopia ma al disastro». E, proprio per questo – ha sostenuto Fukuyama – è necessario abbandonare il sospetto liberale (e liberista) per lo ‘Stato-forte’, inteso non come uno Stato invasivo e opprimente, ma come un insieme di istituzioni in grado di resistere alle pressioni provenienti dalla società. Infine, Fukuyama ha finito col rivalutare la ‘cultura’, intesa come eredità di un lungo processo storico e, soprattutto, concepita come un elemento ‘relativamente autonomo’ dalle istituzioni politiche e giuridiche: un elemento, dunque, che non può essere prodotto utilizzando lo strumento istituzionale. Certamente, si tratta di idee che non sono affatto nuove (si potrebbe dire anzi che sono vecchie quanto il pensiero politico occidentale). E, a ben vedere, non sono del tutto nuove neppure nella stessa riflessione di Fukuyama, perché un lettore attento potrebbe già scorgerne le tracce nel suo best-seller sulla fine della storia. Ma, soprattutto, sono più o meno le stesse idee che stanno alla base dell’intera riflessione di Samuel P. Huntington (dai primi studi sull’ordine politico fino alla tesi dello ‘scontro delle civiltà’). Così, non è affatto sorprendente che Fukuyama dedichi il suo ultimo lavoro – The Origins of Political Order – proprio ad Huntington, ossia all’intellettuale che, nella vulgata, è stato sovente raffigurato come il suo principale avversario nella contesa teorica sull’immagine del mondo post-bipolare.
Questi mutamenti non implicano però che Fukuyama abbia abbandonato le tesi del 1989. Al contrario. Rimane infatti convinto che in quei mesi sia stato raggiunto il culmine dell’«evoluzione ideologica» del genere umano. E che tutte le difficoltà derivino piuttosto dalla persistenza di ostacoli – culturali, politici, economici – che impediscono il raggiungimento di questo obiettivo da parte di tutti i paesi del mondo. Così, è piuttosto prevedibile che, oggi, Fukuyama veda nella «Primavera araba» una formidabile conferma alle proprie vecchie ipotesi. «Quel che sta succedendo nel mondo arabo» – ha dichiarato in un’intervista rilasciata alcuni giorni fa a Federico Rampini (Avevo ragione, la storia è finita, «la Repubblica», 30 marzo 2011) – «è la miglior conferma della mia tesi del 1989 su La fine della storia. Allora, quando osservai che liberaldemocrazia era lo stadio più avanzato nell’evoluzione delle società umane, tra le obiezioni che ricevetti c’era proprio quella di chi mi rinfacciava l’eccezione araba. Ecco, oggi vediamo che quell’eccezione non esiste. I popoli arabi non sono diversi da noi, hanno le stesse aspirazioni, la stessa dignità». In altre parole, secondo l’intellettuale nippo-americano, le rivolte che attraversano il mondo arabo sono la manifestazione della «terza ondata»: «rivediamo un fenomeno già accaduto in passato, sotto altri cieli e in altri contesti: vaste masse si mobilitano perché non tollerano più di vivere sotto il giogo delle dittature. E quel che vogliono non è molto diverso dalla democrazia intesa nel senso occidentale. È il trend di lunga durata che a suo tempo definii come la terza via o terza ondata delle democrazie. […] Ora abbiamo la prova che i valori della liberaldemocrazia non sono esclusivi, non appartengono a un solo tipo di cultura».
Sarebbe ovviamente piuttosto facile trovare nel discorso di Fukuyama più di qualche incongruenza e più di qualche semplificazione. In primo luogo, sembra piuttosto semplicistico affermare che i protagonisti che animano la «Primavera araba» vogliono qualcosa che «non è molto diverso dalla democrazia intesa nel senso occidentale», o che «i popoli arabi non sono diversi da noi, hanno le stesse aspirazioni, la stessa dignità». È piuttosto semplicistico per almeno tre motivi, d’altronde piuttosto scontati. In primo luogo, perché non è chiaro ‘cosa’ vogliano effettivamente i manifestanti, quali siano le forze (più o meno organizzate, più o meno omogenee dal punto di vista ideologico, più o meno autonome nella loro azione) che muovono, spingono o seguono questi movimenti, anche perché – come è divenuto chiaro dinanzi agli eventi libici – la società dell’informazione globale è anche una società in cui la disinformazione, la manipolazione, la distorsione della realtà diventano strumenti formidabili di propaganda. In secondo luogo, il discorso di Fukuyama è semplicistico nel momento in cui istituisce una sorta di equazione fra le rivolte contro le dittature e la richiesta di istituzioni liberaldemocratiche, per il semplice motivo che, in questo modo, si dimenticano le motivazioni ‘economiche’ che, con ogni probabilità, stanno alla base dell’esplosione di questi mesi: motivazioni che rimandano proprio ai processi di globalizzazione e all’integrazione di aree sempre più vaste all’interno delle dinamiche dell’economia globale, oltre che, fatalmente, alle sue fragilità. Infine, il discorso di Fukuyama è discutibile nel momento in cui associa la richiesta di libertà e il desiderio che venga riconosciuta la propria ‘dignità’ alla richiesta e agli ideali della liberal-democrazia occidentale: a ben vedere, non si tratta di un riflesso della vittoria ideologica della liberal-democrazia, ma delle stesse parole d’ordine che ogni rivolta popolare issa sulle proprie insegne. In altre parole, il riconoscimento della dignità, la richiesta di eguaglianza e di libertà non derivano dalla vittoria ‘ideologica’ della democrazia occidentale, ma sono l’eterno corredo della rivolta contro il potere, un corredo di parole e ideali che si ritrovano – senza troppe variazioni – fra la plebe romana ritirata sull’Aventino, fra gli schiavi in rivolta guidati da Spartaco, sulle barricate parigine del 1848, o fra gli operai in sciopero dei cantieri navali di Danzica.
A dispetto di tutte queste semplificazioni, c’è però un elemento di verità nel discorso di Fukuyama, un elemento che rende la tesi della «fine della Storia» realmente efficace. Questo elemento non ha nulla a che vedere con la capacità di prevedere il futuro. Ha invece qualcosa a che vedere con la capacità che si attribuisce alle ‘profezie che si auto-avverano’, perché si tratta di una tesi in grado di cogliere lo Zeitgeist occidentale, di fotografare il modo con cui l’Occidente percepisce se stesso e il progresso storico. Dopo il crollo del Muro di Berlino, possiamo dire infatti che – per l’Occidente – l’«evoluzione ideologica» del genere umano è realmente finita, e il progresso ha trovato la sua forma politica ‘definitiva’ nella democrazia liberale. Dal punto di vista politico, l’Occidente – e dunque tutte le forze politicamente rilevanti presenti all’interno del mondo occidentale – non possono pensare il ‘Progresso’ diversamente da una conservazione della forma istituzionale presente: non possono che pensare al ‘Progresso’ come a una sorta di dilatazione delle condizioni di benessere presenti, come a un’estensione delle potenzialità di consumo, oppure nei termini di allungamento della durata media della vita. Ma non concepiscono il ‘Progresso’ al di fuori del binario politico-istituzionale-culturale della democrazia liberale. E, inoltre, non pensano che la ‘vera’ democrazia debba essere raggiunta nel futuro. Pensano piuttosto che si tratti di un assetto che deve essere preservato dalle minacce (interne ed esterne), o che deve essere adeguato alle nuove esigenze sociali, con l’obiettivo prioritario di conservare la condizione che abbiamo raggiunto.
Dal punto di vista strettamente ‘ideologico’, le implicazioni di questa trasformazione sono evidenti. Innanzitutto, la democrazia diventa un «significante vuoto», una parola che non vuol dire nulla di specifico, ma che per questo può essere adottata senza troppi problemi da chiunque. Ma, soprattutto, in questo contesto il progetto democratico cambia del tutto i contorni che mostrava ancora nella prima metà del Novecento, nel senso che la ‘democrazia’ non identifica più un progetto di trasformazione sociale e politica, bensì solo un progetto (o un vago desiderio) di conservazione. E, in questo senso, l’idea della ‘fine della Storia’ restituisce, nel modo forse paradigmatico, la condizione ideologica ed emotiva di un Occidente decadente, un Occidente che è in grado di percepire il futuro solo in due modi: o come conservazione del presente dinanzi a crescenti minacce (interne ed esterne), o nei termini della catastrofe, dell’apocalisse ambientale e politica. La ‘fine della Storia’ di Fukuyama riesce perciò, realmente, a restituire questa condizione emotiva: in altre parole, noi – come occidentali, orfani di qualsiasi idea di radicale trasformazione sociale, di qualsiasi speranza di Progresso che non sia la perpetuazione del presente – non siamo in grado di concepire il futuro se non come una conservazione (difficile) della democrazia liberale, o in quelli – angoscianti – della ‘fine del mondo’, del cataclisma, dell’invasione barbarica, dell’apocalisse.
La tesi della ‘fine della Storia’, dunque, non si rivela efficace perché prevede qualcosa che è destinato ad avverarsi. Piuttosto, si rivela efficace perché riflette in modo paradigmatico la chiusura dell’orizzonte politico che segna le nostre società. Perché – come ho in parte tentato di argomentare in Fino alla fine del mondo. Saggi sul ‘politico’ nella rivoluzione spaziale contemporanea (Liguori, Napoli 2010) – rende nel modo forse più chiaro il motivo per cui il nostro orizzonte politico si restringe, gradualmente, fino a ricondurre ogni contrapposizione legittima al modo di ‘difendersi’ dal declino, di arrestare un processo di decadenza che sembra invece – paradossalmente – inevitabile.
Ed è proprio dentro questo significato della ‘fine della Storia’ che ritroviamo, in filigrana, il cuore ideologico – l’insidiosa seduzione – della «guerra umanitaria». Dato che la democrazia è la vetta più elevata dell’evoluzione dell’umanità, dato che la democrazia è la forma istituzionale che garantisce al meglio il riconoscimento della dignità umana, e dato che la democrazia è l’unica forma politica che consente il rispetto dei diritti umani e la piena realizzazione delle aspettative di ognuno, tutto quello che non è riconducibile alla democrazia liberale non solo è ideologicamente diverso, ma non può che essere illegittimo. Non può che essere – almeno potenzialmente – contro l’umanità. Non può che opporsi alla fine della Storia, o accelerare una deflagrazione devastante. In altre parole, tutto ciò che non può essere ricondotto alla liberaldemocrazia – secondo lo schema della fine della Storia – diventa implicitamente una minaccia per il genere umano e per i suoi diritti. Diventa cioè – più o meno potenzialmente – un nemico assoluto, un nemico con cui non è possibile alcuna contrattazione e con cui è inevitabile una lotta mortale. Una lotta non per difendere un diritto o per contrastare una minaccia, ma per salvare l’umanità dai suoi nemici. Una lotta – al tempo stesso, ‘umanitaria’ e inumana – che non riconosce al nemico alcuna legittimità politica e ideologica. E una lotta che – proprio per questo – non può che essere senza condizioni.
Damiano Palano
(2 aprile 2011)
Nessun commento:
Posta un commento