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sabato 16 aprile 2011

La maschera di Putin

di Damiano Palano

Per gli occidentali, la Russia post-sovietica è diventata negli ultimi anni una sorta di vero e proprio enigma, e l’opinione pubblica internazionale ha iniziato chiedersi chi si nasconda davvero dietro la maschera di Vladimir Putin. Il volume di Lev Gudkov e Victor Zaslavsky, La Russia da Gorbaciov a Putin (Il Mulino, pp. 208, euro 15.00), aiuta – se non proprio a sciogliere questo enigma – quantomeno a ricostruire la complessità delle forze in campo. Nel loro testo, Gudkov, direttore del Centro di studi sull’opinione pubblica «Levada» di Mosca, e Zaslavsky, scomparso nel 2009 e autore fra l’altro di Pulizia di classe. Il massacro di Katyn (Il Mulino), svolgono infatti un esame completo, oltre che notevolmente critico, dell’«era Putin». Quello che è emerso negli ultimi quindici è infatti – ai loro occhi – un vero e proprio regime autoritario, anche se diverso rispetto a quello della Russia sovietica:  si tratta, cioè, di un «autoritarismo morbido», di «un autoritarismo burocratico senza transizione».
Secondo Gudkov e Zaslavsky, la chiave per spiegare la nascita del nuovo regime deve essere ricercata nel rapido fallimento della transizione democratica consumatosi durante la stagione di Boris Eltsin. La transizione verso la democrazia liberale coincise, in questo periodo, con la crisi strutturale dell’economia russa, con un netto abbassamento del tenore di vita e, più in generale, con la marcata instabilità del paese. Di fronte a una situazione che appariva ingovernabile, dopo i primi anni Eltsin preferì volgersi alle strutture militari, poliziesche e repressive. E, contemporaneamente, diede avvio alla riaffermazione del ruolo dell’esecutivo nel sistema politico russo. Già nella seconda metà degli anni ‘90, iniziarono così a delinearsi le tendenze che avrebbero caratterizzato l’«era Putin»: la notevole riduzione della libertà dei mass media, la sostanziale scomparsa del pluralismo politico e la crescente subordinazione dei governatori regionali e federali al potere centrale. Ma, soprattutto, emerse ben presto anche la prepotente redistribuzione della proprietà: una redistribuzione che comportò l’attacco all’oligarchia economica, nata con le privatizzazioni dei primi anni ‘90, e la formazione di nuovi gruppi che offrivano il pieno sostegno al regime autoritario.
Nel corso della sua presidenza, Putin ha potuto beneficiare di un consenso ampio, favorito anche dalla ripresa della guerra russo-cecena e dalla crescita del prezzo sul mercato mondiale di petrolio e gas. Proprio gli introiti derivanti dall’esportazione delle risorse energetiche, hanno offerto a Putin gli strumenti per riattivare le strutture repressive e punitive e per tornare a sostenere il vecchio apparato militare e industriale. Inoltre, nell’era di Putin ha preso forma una nuova nomenklatura economica e politica, in gran parte espressione della «gente in divisa», che non può che guardare con favore alla costruzione di uno «Stato forte», anche sotto il profilo internazionale. Ed è la connotazione ideologica di questo nuovo blocco di potere che suggerisce qualche inquietudine. Nel corso degli ultimi dieci anni, in Russia hanno infatti iniziato a ricomparire alcuni tratti del vecchio homo sovieticus, e in primo luogo l’idea che la Russia sia una grande potenza minacciata dall’Occidente. Proprio la forza dei sentimenti anti-americani è cresciuta costantemente, ma, di pari passo, è riaffiorata anche la memoria della vittoria contro la Germania nella Seconda guerra mondiale, con tutta la vecchia oleografia costruita dal regime comunista, inclusa l’immagine celebrativa del ‘Generalissimo’ Stalin.
Le basi del nuovo regime, secondo l’analisi di Dudkov e Zaslavsky, non sono però così solide come potrebbe sembrare. L’economia russa rimane infatti piuttosto debole e, soprattutto, estremamente fragile rispetto alle turbolenze internazionali. La crisi del 2008 ha d’altronde messo in luce tutti i limiti di una crescita economica che, fondata soprattutto sulle esportazioni di gas e petrolio, si è accompagnata nell’ultimo decennio alla sostanziale stagnazione di vari settori industriali e dell’agricoltura. Ciò significa che i paesi europei rimarranno dipendenti in campo energetico dalla Russia fino a quando non avranno diversificato il sistema di rifornimento del gas, ma anche che la Russia rimarrà dipendente dall’Occidente per quanto concerne tecnologia, relazioni economiche, conoscenze, informazione. E proprio in considerazione della necessaria apertura economica della Russia, Dudkov e Zaslavsky ritengono che l’Occidente e l’Unione europea dovrebbero puntare a riequilibrare i rapporti con il vicino russo. Perseguendo una politica di più stretta collaborazione, «che non escluda forme di influenza» volte a soprattutto a incentivare «la modernizzazione e l’evoluzione democratica della società». In altre parole, Dudkov e Zaslavsky pensano che solo grazie a una più stretta integrazione l’Occidente possa influire positivamente sulla politica interna russa, almeno sotto il profilo dei valori democratici e del rispetto dei diritti. In assenza di un simile riequilibrio, si potrebbero aprire invece nuovi e inquietanti scenari, innescati soprattutto dalla crescita del potere di intimidazione russo sui vicini europei. In quest’ultima eventualità, potremmo assistere al ritorno sulla scena delle ambizioni imperiali di Mosca. E forse allora – invece che a una ‘occidentalizzazione’ della Russia – potremmo persino registrare a una sorta di paradossale ‘russificazione’ delle democrazie europee.


Damiano Palano
 
 
Lev Gudkov e Victor Zaslavsky, La Russia da Gorbaciov a Putin, Il Mulino, pp. 208, euro 15.00.




(da "Avvenire", 8 gennaio 2011)

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