(da "Avvenire", 13 novembre 2010)
Dopo il 1989 il successo planetario della democrazia ha riportato al centro la domanda sul rapporto fra sviluppo economico e democrazia. Ovviamente, una simile domanda coinvolge i casi, molto differenti, di Cina e Russia. Ma riguarda anche i paesi più poveri, i paesi dell’«ultimo miliardo», cui è dedicato il volume Paul Collier, Guerre, armi e democrazia (Laterza, pp. 248, euro 18.00). Docente all’Università di Oxford, Collier è soprattutto un esperto di economie africane, ma in questo volume si concentra principalmente sul ruolo della democrazia nelle società povere. E, in particolare, punta a contrastare la convinzione che l’introduzione di un regime democratico riesca a ridurre la violenza presente nella società.
Il libro di Collier prende le mosse da una constatazione. A partire dagli anni Novanta, il successo della democrazia ha spinto molti leader autoritari a giocare la carta delle elezioni. Ciò, però, spesso non si è tradotto nella nascita di vere e proprie democrazie, perché ha piuttosto innescato una sorta di patologia che Collier definisce come “demopazzia”. In altri termini, o le elezioni si sono risolte in una farsa controllata dall’alto, oppure hanno prodotto violenze etniche (come, per esempio, nel caso del Kenya nel 2007). Secondo l’analisi dell’economista, esiste infatti una soglia di 2700 dollari pro capite all’anno che costituisce un discrimine cruciale: al di sopra di tale soglia, l’adozione di un regime democratico produce un effetto pacificatore, mentre, al di sotto, produce ulteriore violenza. I paesi contrassegnati da un livello di reddito procapite annuo inferiore a 2700 dollari – come tutti quelli dell’«ultimo miliardo», che hanno peraltro redditi ben inferiori – tendono dunque a diventare più violenti proprio quando adottano i principi democratici.
I motivi vengono ricondotti alle condizioni strutturali dei paesi dell’«ultimo miliardo», che sono soprattutto concentrati nell’Africa sub-sahariana. Si tratta infatti, secondo Collier, di paesi strutturalmente fragili, che, per le loro caratteristiche, non riescono a garantire i due beni pubblici essenziali per un corretto funzionamento della democrazia: la sicurezza e la responsabilità. La fragilità dipende soprattutto dal fatto che questi Stati sono, al tempo stesso, troppo grandi e troppo piccoli: troppo grandi perché, al loro interno, non esiste una coesione nazionale in grado di sostenere azioni collettive; e troppo piccoli perché non hanno le dimensioni sufficienti per consentire una produzione adeguata di quei beni pubblici (come proprio la sicurezza e l’amministrazione responsabile) che non possono essere forniti dal settore privato.
In sostanza, lo studioso di Oxford ritiene che gli Stati dell’«ultimo miliardo», lasciati a se stessi, non possano diventare democratici. La soluzione deve invece provenire dall’esterno, dalla comunità internazionale. È in questa direzione che vanno infatti le sue (controverse) proposte. Collier – è bene precisarlo – non pensa a interventi militari finalizzati all’esportazione della democrazia. Pensa più che altro a criteri che vincolino l’erogazione di aiuti internazionali alla trasparenza delle procedure di trasferimento alla popolazione e alla riduzione delle spese militari. Ma guarda soprattutto all’ipotesi di introdurre standard elettorali internazionali, volontariamente sottoscritti dagli Stati: in virtù di questi standard, qualora un governo regolarmente eletto venisse deposto da un colpo di Stato, la comunità internazionale dovrebbe garantirne il reinsediamento (anche tramite un intervento militare).
È abbastanza evidente come proprio quest’ultima proposta sia destinata a sollevare più di qualche perplessità. Non solo perché tende a ledere la sovranità interna di uno Stato e il principio di non ingerenza negli affari interni. Ma, soprattutto, perché presuppone il fatto che la comunità internazionale sia disposta a impiegare risorse umane, economiche e militari per difendere i regimi democratici di paesi poveri e, dal punto di vista degli scenari geopolitici, spesso marginali. La soluzione suggerita da Collier, prima che inefficace, può sembrare dunque irrealistica, o realizzabile solo in circostanze eccezionali. In realtà, però, l’analisi di Guerre, armi e democrazia coglie una tendenza che, probabilmente, nei prossimi anni si rafforzerà. Una tendenza che potrebbe estendere notevolmente l’area dell’ingerenza della comunità internazionale negli affari interni degli Stati, e soprattutto dei ‘quasi Stati’ situati nelle aree povere del mondo. Perché, in un mondo interconnesso, gli Stati deboli (e gli Stati falliti) costituiranno sempre più un fattore di rischio per l’intera comunità internazionale, che si troverà così costretta a occuparsi anche di queste aree.
Il punto ovviamente più problematico è però rappresentato dal posto che avrà la democrazia in questa trasformazione. Oggi non è troppo realistica l’ipotesi che la comunità internazionale sia disposta a sostenere ad ogni costo – e anche militarmente – un governo eletto democraticamente contro i rischi di golpe. Ma questa ipotesi è destinata a diventare ancora meno credibile nel caso in cui grandi Stati non democratici conquistino un ruolo internazionale sempre più consistente. E l’ascesa internazionale della Cina – un’ascesa prorompente anche nel continente africano – sembra andare proprio in questa direzione.
Damiano Palano
Recensione di Paul Collier, Guerre, armi e democrazia, Laterza, pp. 248, euro 18.00.
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