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martedì 12 aprile 2011

Il nuovo odio per la democrazia. Uguaglianza, politica e biopolitica (a proposito di Jacques Rancière) (1/4)

di Damiano Palano


«Dovunque sulla faccia della terra i migliori sono i nemici della democrazia: giacché nei migliori c’è il minimo di sfrenatezza e di ingiustizia, e il massimo di ignoranza, di disordine, di cattiveria: la povertà li spinge all’ignominia, e così la mancanza di educazione e la rozzezza, che in alcuni nasce dall’indigenza» (Anonimo, Il sistema politico ateniese, in Anonimo, La democrazia come violenza, a cura di L. Canfora, Sellerio, Palermo, 1982, p. 16).

La severa descrizione della democrazia svolta nello scritto Athenaion Politeia – un testo a lungo attribuito a Senofonte – anticipa in modo sorprendente, già nei primi decenni del V secolo a.C., quasi tutti i motivi in seguito ripresi da tutti i critici dell’ideale democratico. Nel dialogo che si svolge fra i due interlocutori, emergono infatti gli aspetti salienti di quel regime politico che consente «alla canaglia di star meglio della gente per bene» (p. 15): dalla licenza concessa agli schiavi, i quali non vengono puniti con durezza, alla funzione rivestita dal dominio del mare, allo sfruttamento economico delle città alleate, all’inefficienza dell’apparato amministrativo, alla corruzione del sistema giudiziario, al dominio esercitato da poche minoranze in virtù del loro potere economico. Una serie di caratteristiche che certo risultano deprecabili agli occhi degli interlocutori del dialogo, ma che, d’altro canto, come nota il più sagace fra i due, si inseriscono in un quadro estremamente coerente, in cui tutti gli elementi sembrano convergere verso l’obiettivo del rafforzamento del dominio del popolo e dinanzi al quale, dunque, appare destinato al fallimento qualsiasi intervento volto a rovesciare il regime democratico ateniese. In effetti, come osserva Luciano Canfora, che colloca la redazione dell’opuscolo nel periodo 429-424 a.C., il punto focale attorno al quale ruota l’esame del regime ateniese svolto nell’opuscolo dall’«oligarca ‘intelligente’» è proprio quello della coerenza interna dell’assetto democratico:

«Tutto il suo dire tende a ricondurre a questo genere di spiegazione ciò che appunto, del comportamento del popolo suscita generalmente stupore. Questa insistenza sulla ‘coerenza’ del popolo è il filo conduttore di tutti gli interventi di questo interlocutore-protagonista, il quale si colloca dunque agli antipodi dell’arcaica visione del popolo ‘bestiale’ e ‘stolto’. Al suo interlocutore, il protagonista concede ovviamente – poiché anch’egli è partecipe dello stesso mondo di valori – che ‘su tutta la faccia della terra l’elemento migliore è ciò che si oppone alla democrazia’, che nei ‘migliori’ c’è il minimo di sfrenatezza e di iniquità, che nel popolo c’è il massimo di ignoranza, disordine, malvagità. Ma le sue analisi non vertono tanto sulla ovvia condanna dei valori democratici, quanto sulla coerenza dell’odiato sistema e del suo funzionamento» (L. Canfora, La democrazia come violenza, in Anonimo, La democrazia come violenza, cit., pp. 41-67, specie p. 47).

La genesi del dialogo sulla Athenaion Politeia – che, per molti versi, «contiene la più antica e originale ‘critica della democrazia’ come sistema oppressivo e deleterio, ma a suo modo perfetto» (ibi, p. 53) – si innestava naturalmente all’interno della polemica portata avanti da aristocratici ed esuli contro il regime democratico, una polemica d’altronde che rifletteva fedelmente la connotazione fortemente negativa che aveva pesato, al suo sorgere, sullo stesso termine demokratia. Originariamente il termine si riferiva infatti sia al demos - inteso non come la totalità dei cittadini, ma solo come la parte «povera» della popolazione, costretta a lavorare per mantenersi – sia all’idea che il dominio del demos fosse basato sulla violenza, a differenza di quanto avveniva, secondo Aristotele, nella politeia. Il disprezzo per la democrazia, come è noto, doveva imprimere sul pensiero politico occidentale un’impronta indelebile, anche perché, come ha sostenuto Hannah Arendt, proprio la condanna di Socrate andò a innescare, nel circolo dei suoi allievi, una riflessione filosofica sulla politica, che era – fin dai presupposti – una condanna dell’azione politica e di quella forma di governo che consegnava il potere al popolo.
In modo paradigmatico, l’avversione alla democrazia imposta l’intera riflessione di Platone, al cui interno – come ha osservato di recente Alain Badiou, possiamo effettivamente trovare i cardini di una critica radicale della democrazia. Una critica che non si limita a rilevare come la democrazia si fondi su una conoscenza illusoria, ma che si spinge anche a sostenere che il soggetto della democrazia, l’homo democraticus, «si costituisce solamente rispetto al suo piacere» (A. Badiou, L’emblema democratico, in G. Agamben et. al., In che stato è la democrazia?, Nottetempo, Roma, 2010, p. 20). In sostanza, la democrazia è il regno in cui comanda l’illusione che sia possibile appagare ogni desiderio, è la forma di governo «gradevole, anarchica e bizzarra, che dispensa una sorta di uguaglianza tanto a ciò che è ineguale quanto a ciò che è uguale». C’è dunque qualcosa, nella democrazia, che riflette una sorta di «puerilizzazione universale», perché l’homo democraticus, con l’incoscienza degli adolescenti, rincorre la soddisfazione di propri piaceri, mentre «i vecchi si abbassano ai modi di fare dei giovani per timore di passare da noiosi e dispotici». Nelle società democratiche contemporanee, sostiene Badiou, il «primato della gioventù impone il divertimento come legge sociale», e «anche quelli che non sono in grado di farlo vi sono tenuti» (ibi, p. 23). E l’homo democraticus – con formule che riecheggiano Platone (ma con assai più di qualche licenza) – sembra allora davvero preso in un vortice senza uscita:

L’uomo democratico vive solo nel puro presente, elevando a legge il desiderio del momento. Oggi si fa una grossa abbuffata innaffiata di vino, domani ci sarà posto solo per Buddha, il giocane ascetico, per l’acqua limpida e lo sviluppo sostenibile. Il lunedì va a rimettersi in forma pedalando per ore su una bicicletta immobile, il martedì dorme tutto il giorno, poi fuma e gozzoviglia. Il mercoledì dichiara che leggerà un po’ di filosofia, ma alla fine preferisce non far nulla. Il giovedì a pranzo s’infiamma per la politica, scatta con furore contro l’opinione del suo vicino e denuncia, con il medesimo impetuoso entusiasmo la società dei consumi e la società dei dello spettacolo. La sera va al cinema a vedere un pessimo mattone di guerra ambientato nel Medioevo. Torna a dormire sognando di impegnarsi nella liberazione armata dei popoli asserviti. Il giorno dopo si avvia al lavoro con la bocca impastata e tenta invano di sedurre la segretaria dell’ufficio accanto. È deciso, si getterà negli affari! A lui i profitti immobiliari! Ma siamo al fine settimana, c’è la crisi, vedremo la settimana prossima. In ogni caso, ecco una vita! Né ordine né idee, ma può essere definita gradevole, felice e, soprattutto, tanto libera quanto insignificante. Non è caro pagare la libertà al costo dell’assenza di significato (ibi, pp. 24-25).

Una simile ‘attualizzazione’ di Platone (e della sua filosofia elitaria) può apparire singolare in un autore che, in modo dichiarato, e spesso provocatorio, ha rivendicato un impegno radicale e, persino, l’ambizione di dare nuova linfa vitale all’«ipotesi comunista» (seppure in una direzione ben diversa rispetto a quella seguita dal comunismo novecentesco: cfr. per esempio testi come La Comune di Parigi, Cronopio, Napoli, 2004, Zarkozy, Cronopio, Napoli, 2008, o anche il recente Possiamo, quindi dobbiamo, in «Alfabeta2», 2011, n. 8, pp. 27-28). Ma l’idea del filosofo francese è che, «per andare a toccare davvero la realtà delle nostre democrazie, come esercizio a priori», sia indispensabile «destituire il loro emblema»; e che, pertanto, sia «possibile fare verità sul mondo in cui viviamo solamente accantonando la parola ‘democrazia’ e assumendosi il rischio di non essere democratici e di essere quindi davvero malvisti da ‘tutto il mondo’» (ibi, pp. 15-16). Al di là degli specifici obiettivi polemici che orientano il lavoro di Badiou, è però difficile non concordare – almeno in parte – con il ritratto che dipinge dell’homo democraticus: un ritratto in cui è quasi impossibile non ritrovare elementi reali, certo deformati dagli scoperti intenti satirici, ma comunque ben evidenti nello Zeitgeist nelle nostre società ‘post-storiche’ e ‘post-ideologiche’. D’altro canto, l’atmosfera antropologica che emerge da tante esplorazioni del nostro tempo – dalla Vita bassa di Arbasino (Adelphi, Milano, 2008), all’Egemonia sottoculturale di Massimiliano Panarari (Einaudi, Torino, 2010), solo per citare due esempi efficaci – non risulta troppo lontana da quella fissata da Badiou. E, forse, appare come lo sviluppo coerente della «mutazione antropologica» intravista da Pier Paolo Pasolini quasi quarant’anni fa.
Anche negli impietosi ritratti dell’homo democraticus contemporaneo, così come nella condanna platonica della democrazia, non è però difficile ritrovare le tracce di una reazione elitaria contro il popolo. In effetti, Jacques Rancière – filosofo della politica tra i più originali protagonisti del dibattito intellettuale francese degli ultimi decenni – ritrova in questo atteggiamento intellettuale nuovi riflessi dell’«odio per la democrazia», un odio «vecchio quanto la democrazia, perché già questa parola è l’espressione di un odio» (J. Rancière, L’odio per la democrazia, Cronopio, Napoli, 2007, p. 7; ed. or. La fabriques, Paris, 2005), ma che, oggi, viene declinato in una direzione differente. Dopo circa venticinque secoli, il termine-concetto «democrazia», passando attraverso una complessa serie di avventure, ha infatti visto mutare sensibilmente il proprio significato, e, soprattutto, ha visto l’originaria connotazione negativa trasformarsi radicalmente, tanto che oggi la forma democratica di organizzazione politica – o, meglio, la sua peculiare declinazione liberale e occidentale – sembra addirittura configurarsi come il compimento storico di una teleologia universale. A dispetto di un successo all’apparenza tanto solido, per Rancière l’«odio» per la democrazia non è però affatto scomparso. Al contrario, l’odio per la democrazia ha conquistato un nuovo, straordinario vigore. E, ovviamente, una nuova fisionomia.
Quando parla oggi di «odio per la democrazia», Rancière non si riferisce infatti né alla vecchia critica della democrazia, portata avanti da quanti vedono «la rovina di ogni ordine legittimo nell’innominabile governo della moltitudine», benché una simile avversione non sia affatto tramontata, né alla critica della democrazia svolta dalla tradizione del costituzionalismo liberale o a quella formulata da Marx e dalla tradizione marxista, centrata sul carattere puramente formale della «democrazia borghese». Il nuovo «odio per la democrazia» che Ranciére individua nelle società occidentali si indirizza invece contro la democrazia intesa come «regno dei desideri illimitati degli individui nella moderna società di massa». E i portavoce di questo nuovo «odio» puntano così il dito non contro le istituzioni democratiche, ma contro il popolo stesso:

«Nessuno si lamenta delle istituzioni che pretendono di incarnare il potere del popolo né propone misure per ridurre questo potere. […] È del popolo che si lamentano, non delle istituzioni del suo potere. Per loro la democrazia non è una forma di governo corrotto, ma una crisi della civiltà che tocca la società e, attraverso di essa, lo stato. Sorgono così una serie di posizioni ambigue che a prima vista possono sembrare sorprendenti. Gli stessi critici che senza sosta denunciano quell’America democratica, da cui deriverebbe tutto il male del rispetto delle differenze, del diritto delle minoranze e dell’affirmative action, che mina il nostro universalismo repubblicano, sono i primi ad applaudire quando quella stessa America si mette a diffondere la sua democrazia nel mondo con la forza delle armi» (J. Rancière, L’odio per la democrazia, cit., p. 9).

La duplicità dell’atteggiamento nei confronti della democrazia, osserva Rancière, non è certo una novità, ma il contemporaneo odio per la democrazia mostra un carattere inedito, che sostiene che il governo democratico «è cattivo quando si lascia corrompere dalla società democratica che vuole che tutti siano uguali e che tutte le differenze siano rispettate», mentre è buono «quando richiama gli infiacchiti individui della società democratica all’energia di una guerra in difesa dei valori della civiltà, che sono poi quelli dello scontro fra civiltà» (ibi, p. 10). La tesi del nuovo odio per la civiltà può allora essere ridotta, secondo Rancière, a un’idea estremamente semplice, per quanto radicale, in virtù della quale «c’è soltanto una democrazia buona, quella che frena la catastrofe della civiltà democratica» (ibidem).
Le riflessioni sul nuovo «odio per la democrazia» svolte da Rancière, tra i più originali protagonisti del dibattito intellettuale francese degli ultimi decenni, si collocano naturalmente all’interno di un’articolata discussione teorica e politica, che ha visto come protagonisti, per citare solo alcune delle voci più note, Alain Finkielkraut, Claude J. Milner, Bernard-Henry Lévy, Dominique Schnapper, ma anche Pierre Rosanvallon, Pierre Bourdieu e Alain Badiou. La posizione di Rancière assume perciò il suo pieno significato soltanto se considerata all’interno di questo dibattito, le cui tappe di avvio possono essere intraviste già intorno alla metà degli anni Ottanta e che, nel corso dei vent’anni successivi si è articolata soprattutto attorno ad alcuni nodi cruciali, come la «democrazia provvidenziale», la crisi dell’ideale repubblicano e le conseguenze politiche delle divisioni culturali, etniche e religiose sull’unità della comunità nazionale (e sulla coerenza dei suoi valori repubblicani). Al tempo stesso, quelle annotazioni critiche possono essere compiutamente intese solo all’interno del percorso teorico di Rancière e, dunque, come sviluppo coerente di una ricerca intellettuale che, partendo da un’impostazione althusseriana, ha ben presto abbandonato le basi del marxismo strutturalista per sviluppare un’originale indagine intorno ai fondamenti della politica.
A partire dagli anni Settanta, in una non casuale connessione con la critica della filosofia di Althusser, Rancière ha iniziato infatti a prendere atto dell’impossibilità di ogni conoscenza ‘oggettiva’ del mondo (e, dunque, di una scienza che sia del tutto priva di elementi ideologici), ritrovando così, dietro ogni pretesa di conoscenza ‘realmente scientifica’ (o in qualche modo ‘superiore’) uno strumento di legittimazione di un determinato «ordine» (sociale e politico). Così, ha iniziato a ‘prendere sul serio’ le parole con cui gli «inferiori, nelle diverse stagioni della storia, contestano il fondamento stesso dell’«ordine» e della subordinazione ai «superiori». È proprio a partire dal riconoscimento del ruolo cruciale del «disaccordo» fra superiori e inferiori che Rancière – in opere come La Nuit de prolétaire, Le Philosophe et ses pauvre, Le Maître ignorant, Le Noms de l’histoire, La Mésentente, e Au bords du politique – è giunto a un radicale ripensamento della tradizione occidentale della filosofia politica. E, soprattutto, è partendo dalla dinamica paradigmatica dello «scandalo della democrazia» che è giunto a un’originale ridefinizione di quella dimensione della vita associata che l’esperienza occidentale ha definito come «politica».

Damiano Palano








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