(da "Avvenire", 16 ottobre 2010)
Dove vanno le nostre democrazie? Questa domanda, che ha accompagnato nel corso del Novecento le numerose ‘crisi’ dei regimi democratici, ha cominciato a risuonare con insistenza ancora maggiore negli ultimi due decenni. I motivi di una simile insistenza sono facilmente comprensibili. A dispetto del successo planetario della democrazia e dall’aumento consistente degli Stati democratici, le democrazie occidentali, a partire proprio dalla fine della Guerra Fredda, hanno iniziato a mostrare segnali evidenti di trasformazione. Segnali costituiti, per esempio, dalla crescente apatia dei cittadini, dal successo dell’antipolitica, dall’ascesa di un nuovo linguaggio populista, dalla lievitazione dell’astensionismo, dal calo delle iscrizioni ai partiti, oltre che dal logoramento del dibattito mediatico. Proprio questi fenomeni hanno alimentato l’impressione che la «qualità» delle democrazie sia in declino, o, addirittura, che i sistemi politici occidentali si stiano muovendo verso una sorta di «postdemocrazia».
Da tali letture pessimiste si discosta invece Principi del governo rappresentativo (Il Mulino, pp. 294, euro 30.00), un importante lavoro di Bernard Manin, finalmente disponibile anche in italiano con una prefazione di Ilvo Diamanti. In questo studio, il politologo francese – docente alla New York University – non nega naturalmente che i sistemi politici occidentali siano profondamente mutati nel corso degli ultimi decenni, ma, evitando di utilizzare espressioni connotate come ‘crisi’ o ‘decadenza’, preferisce parlare di una «metamorfosi» del governo rappresentativo: una metamorfosi che certo ha degli aspetti innovativi, ma di cui non possono però essere trascurati gli elementi di continuità, rispetto alla lunga storia della rappresentanza politica.
Lo studio di Manin si presenta innanzitutto come una ricostruzione dell’evoluzione storica del governo rappresentativo, il quale viene distinto in modo piuttosto netto – e contro l’uso oggi largamente invalso – dalla democrazia. Nonostante i molti mutamenti intervenuti, secondo Manin i caratteri del governo rappresentativo sono infatti rimasti sostanzialmente invariati, dalla fine del XVIII secolo fino a oggi, e sono riconducibili a quattro «principi» costitutivi: 1) la designazione dei governanti mediante elezioni che si svolgono a intervalli regolari; 2) una relativa indipendenza dei governanti dai desideri dell’elettorato; 3) la libertà di espressione delle opinioni riconosciuta ai governati; 4) l’esame delle decisioni pubbliche da parte del dibattito. All’interno di questo quadro, non sono però mancate le «metamorfosi». Infatti, Manin distingue fra tre forme idealtipiche di governo rappresentativo: il parlamentarismo vero e proprio, dominante fino alla fine dell’Ottocento, la democrazia dei partiti, protagonista di gran parte del Novecento, e, infine, la democrazia del pubblico. Ed è ovviamente quest’ultimo tipo ad attirare l’attenzione di Manin, perché è proprio in tale direzione che sembra procedere la metamorfosi contemporanea del governo rappresentativo.
In sostanza, secondo Manin, la democrazia del pubblico prende forma in un contesto segnato da un forte indebolimento delle identificazioni partitiche e, dunque, da una crescita della mobilità elettorale. In questo quadro, l’elettore sembra votare sempre più in base alla personalità del candidato e sempre meno in base all’identificazione con un campo politico. Il ruolo sempre più importante della ‘personalizzazione’ non deve essere però interpretato, secondo Manin, come un segnale di ‘crisi’ della rappresentanza. Al contrario, si tratta, almeno in parte, di un ritorno alle origini, a quel rapporto fiduciario fra elettore ed eletto così importante nella genesi del governo rappresentativo.
L’elemento effettivamente nuovo su cui Manin attira l’attenzione è invece la trasformazione dell’elettorato in una sorta di pubblico. Ciò non significa che i cittadini assistano passivamente allo spettacolo della politica, perché, di fatto, sono proprio gli elettori – oggi più che mai – a decidere le sorti degli aspiranti leader. Piuttosto, gli elettori diventano più simili a un pubblico, perché il voto diventa sempre più ‘reattivo’: in altri termini, con la scelta elettorale non si esprime più un’appartenenza, ma si ‘reagisce’ – col sostegno o col rifiuto – a una proposta avanzata dai leader. E, in una società priva di identificazioni di classe o partitiche, le proposte vincenti sono quelle che dividono fra noi e loro, quelle che sono in grado di compattare voti non intorno a un’identità radicata, ma intorno a una contrapposizione simbolicamente efficace.
Come sottolinea Diamanti nella Prefazione, il libro di Manin continua a offrire molte indicazioni preziose, innanzitutto perché mette in guardia dalla tentazione di considerare il sistema politico italiano, ancora una volta, come una sorta di ‘anomalia’, e perché invita a inscrivere la ‘Seconda Repubblica ’ (con le sue peculiarità) all’interno di una tendenza generale. Ma, in modo ancor più decisivo, anche perché sollecita a porre lo sguardo sugli effetti più duraturi della nuova metamorfosi della rappresentanza. Non solo perché la trasformazione dei cittadini in un «pubblico», chiamato a pronunciarsi ‘reattivamente’ sulle linee di divisione proposte dalla classe politica, rischia di logorare il tessuto delle relazioni sociali e politiche. Ma, forse, anche perché la costante ri-costruzione di nuove fratture tende a dissolvere l’idea stessa che esista, effettivamente, qualcosa di ‘pubblico’, di ‘comune’. Qualcosa che – al di là delle divisioni effimere, costruite, elezione dopo elezione, con frammenti di identità, vecchi risentimenti, nuove invidie – unisce realmente una comunità.
Damiano Palano
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