di Damiano Palano
Nella primavera del 2005, in occasione della campagna per il referendum sulla procreazione assistita, l’attenzione dell’opinione pubblica sembrò dirigersi, improvvisamente, verso questioni abitualmente sottratte al dibattito mediatico, come la ‘dignità’ della persona, la qualità ‘umana’ della vita, la stessa definizione di «essere umano». Proprio in quelle settimane, i lettori del «Corriere della Sera» ebbero modo di scoprire in Giovanni Sartori – uno degli editorialisti di punta del giornale – una 'competenza' per molti versi insospettata nel campo degli studi teologici. Fin dagli anni Sessanta, infatti, Sartori era noto ai più fedeli lettori della testata milanese soprattutto per i suoi interventi in materia di partiti, elezioni, ingegneria costituzionale e riforme istituzionali, nei quali la competenza politologica si accompagnava non di rado a una spiccata vena polemica, che, d’altra parte, aveva consentito allo studioso di diventare, a partire dagli anni Novanta, uno tra i più richiesti ospiti dei talk-show televisivi. Se la reputazione nell’ambito degli studi politici era dunque largamente consolidata, molto meno lo era la sua dimestichezza con la riflessione teologica. Era invece proprio rispolverando questa competenza che Sartori interveniva nel dibattito sulla procreazione assistita, difendendo una posizione nettamente in contrasto con quella portata avanti dalla Chiesa Cattolica – e, in quel particolare momento, dalla Conferenza Episcopale Italiana – ma, almeno secondo il politologo, perfettamente coerente con il magistero di Tommaso d’Aquino.
Questi interventi, già in precedenza pubblicati, vengono ora riproposti in Il Paese degli struzzi. Clima, ambiente, sovrappopolazione (Edizioni Ambiente, pp. 271, euro 17.50), un nuovo libro di Sartori. In particolare, al centro del volume sono gli interventi che Sartori ha dedicato – più o meno negli ultimi dieci anni – a tematiche, in senso lato, ‘ecologiche’. Certo, l’ambientalismo di Sartori è piuttosto distante dalla cultura dei movimenti ecologisti (o, almeno, dalle loro principali espressioni). D’altronde, i lettori del «Corriere della Sera» hanno potuto leggere, proprio nei giorni successivi al terremoto giapponese e alla catastrofe di Fukushima, un’accorata difesa del nucleare da parte di Sartori (Senza nucleare e senza petrolio, in «Corriere della Sera», 27 marzo 2011). Ma il punto su cui battono molti degli interventi raccolti in Il Paese degli struzzi è la sovrappopolazione. L’inquinamento, la scarsità di acqua, i segnali di crisi energetica hanno infatti per Sartori una causa di base, la straordinaria crescita demografica, che potrebbe condurre la popolazione del pianeta verso i dieci miliardi in qualche decennio. Una crescita demografica che – come scrive il politologo proprio nel primo articolo riportato nel volume – dovrebbe essere arrestata, non solo perché inutile, ma soprattutto perché all’origine della drammatica distruzione delle risorse del pianeta:
«A che serve e a chi serve la nostra dissennata corsa alla moltiplicazione incessante? In Africa serve a far crescere il numero dei morti per denutrizione o in eccidi tribali; in America Latina e molte altre parti povere del mondo per cancellare la crescita economica con una ancor maggiore crescita di bocche da sfamare. Non sono mai stato in Cina (il solo paese intelligente che cerca davvero di limitare le nascite); ma sono stato in India, e il formicaio umano di esseri scheletrici che ho visto nel Gange e dintorni mi ha terrorizzato. Perché crescere? Perché moltiplicarsi? Per mal vivere e, alla fine, mal morire in un pianeta brucato sino all’ultimo cespuglio da miliardi di uomini-capra?» (pp. 12-13).
Il ragionamento di Sartori non è certo nuovo, perché i primi allarmi sui rischi derivanti dalla sovrappopolazione risalgono (senza tornare a Malthus) già ai primissimi anni Settanta, e non possono peraltro essere liquidati in modo semplicistico. Dati i termini non certo diplomatici usati da Sartori, è però comprensibile che la sua protesta abbia destato più di qualche perplessità. Ma, al di là di questo, l’aspetto forse più interessante – per scoprire la filosofia che sostiene il suo ragionamento – è la linea d’azione proposta da Sartori. Anche se è ben consapevole che buona parte dell’inquinamento derivi dai paesi occidentali, non ritiene infatti che si debba intervenire nell’area sviluppata del mondo. In Europa e negli Stati Uniti ‘arrestare’ lo sviluppo sarebbe infatti impensabile, anche perché sono democrazie, e in democrazia nessuna forza politica sarebbe disposta a sostenere il costo elettorale di misure del genere. Al contrario, bloccare la crescita demografica nei paesi poveri è molto più semplice, oltre che politicamente meno costoso, perché, in fondo, questi paesi vivono spesso sotto regimi autoritari:
«Per bloccare l’esplosione demografica basta una pillola (e il favorirne, invece che ostacolarne, la utilizzazione). Non saprei invece come persuadere i popoli affluenti a fare marcia indietro e a rinunciare alla loro affluenza. Tantopiù che gli affluenti vivono in democrazie nelle quali hanno voce in capitolo, e quindi in paesi nei quali chi predica eguale povertà, o comunque rinunzie di benessere, perde le elezioni» (p. 34).
Dalle argomentazioni di Sartori trapela – in modo piuttosto scoperto – un tratto quantomeno ‘euro-centrico’, anche se è indiscutibile che si tratta di uno schema esplicativo tanto riduzionista quanto affascinante, lo stesso che ognuno di noi riconosce sovente nella filosofia dei luoghi comuni e nelle solenni sentenze che impreziosiscono le più classiche conversazioni ferroviarie. Ma, dato che Sartori considera la somministrazione di massa della pillola anticoncezionale alle donne dei paesi poveri alla stregua di una panacea capace di risolvere i tanti problemi ambientali, è piuttosto prevedibile che il bersaglio privilegiato della propria polemica sia costituito dalla Chiesa cattolica e dal magistero pontificio. Ed è in effetti per questo motivo che Sartori raccoglie, in appendice a un volume dedicato a temi ambientali, gli articoli dedicati alla ‘corretta’ individuazione del confine tra semplice vita animale e autentica vita umana, risalenti – nella gran parte – ai mesi precedenti il referendum sulla procreazione assistita.
In particolare, il ragionamento del politologo ruota attorno alla tesi secondo cui l’embrione non può essere considerato come «persona», principalmente perché la vita non può essere intesa sempre come vita umana. Come scrive, infatti, all’embrione manca proprio l’elemento in grado di qualificare la vita specificamente ‘umana’, e risulta perciò analogo alla vita animale:
«la vita umana è diversa dalla vita animale perché l’uomo è un essere capace di riflettere su se stesso, e quindi caratterizzato da autoconsapevolezza. L’animale non sa di dover morire; l’uomo sa. L’animale soffre fisicamente perché è dotato di sistema nervoso; ma l’uomo soffre anche psicologicamente, anche spiritualmente. Diciamo, allora, che la vita umana comincia a diventare diversa da quella di ogni altro animale superiore quando comincia a ‘rendersi conto’. Non certo da quando sta ancora nell’utero della madre» (pp. 232-233).
Su queste basi, Sartori conclude che l’embrione può essere utilizzato per qualsiasi finalità, e ovviamente anche ucciso, senza che ciò comporti, in alcun modo, una soppressione di vita umana. «Io uccido esattamente quel che uccido», scrive, «non posso uccidere un futuro, qualcosa che ancora non esiste», «se uccido un girino non uccido una rana», «se bevo un uovo di gallina non uccido una gallina», «se mangio una tazza di caviale non mangio cento storioni» (p. 233).
In polemica con le argomentazioni degli studiosi cattolici, Sartori rivendica i propri studi teologici. «Ich habe auch Theologie studiert!» (p. 240), afferma infatti Sartori; e in particolare, ritiene che le tesi che propone siano basate su una solida conoscenza dei testi di San Tommaso, a differenza di quelle della Chiesa, accusata invece di essersene distanziata per incamminarsi su un terreno instabile e sempre più lontano dal rigore della scienza. Sartori chiama così in causa l’Aquinate nel momento in cui riconosce all’embrione solo una «vita vegetativa», e non dunque un’«anima razionale» (p. 156). Ma, soprattutto, poggiando su San Tommaso, punta a ribadire la sua tesi di fondo, secondo cui «l’uomo è caratterizzato da autocoscienza (o autoconsapevolezza), dal sapere di sé» (p. 243).
Gli interventi di Sartori in una materia tanto complessa devono apparire a molti – più che un raffinato ragionamento teologico – solo un maldestro tentativo di recidere con la forza di un rozzo semplicismo il classico nodo gordiano. Ma, in realtà, la tesi di fondo non stupisce i conoscitori della riflessione del politologo fiorentino. A partire dagli anni Settanta, Sartori si è infatti spesso inoltrato nell’esame di questioni lontane dall’ambito di analisi della political science (anche se non per questo meno ‘politiche’), e, soprattutto nel caso degli andamenti demografici del pianeta, ha più volte sostenuto la necessità, da parte dell’Occidente, di limitare l’incremento demografico nel Sud del mondo, e soprattutto in Africa, mediante un’azione coordinata di sterilizzazione medica delle popolazioni delle aree più povere del pianeta, un tema ripreso, oltre che nel nuovo volume, anche in La terra scoppia (Rizzoli, Milano, 2003; III ed. aggiornata 2004), steso in collaborazione con Gianni Mazzoleni. Ma, a ben vedere, anche la tesi sostenuta nella campagna sulla procreazione assistita ha, nella sua riflessione, radici profonde.
L’interesse per la definizione della «natura umana» - di cui Sartori fornisce prova con il tentativo di distinguere fra «embrione» e «persona» - affonda infatti negli studi giovanili del politologo, e se ne possono anche ritrovare le tracce nei suoi primi scritti degli anni Cinquanta. Già allora, infatti, Sartori aveva avuto modo di interrogarsi sull’enigma della «natura umana» e su quali fossero gli elementi che, effettivamente, qualificavano la specificità dell’essere umano rispetto a ogni altra forma di vita animale. Le motivazioni che alimentavano allora quella indagine erano molto diverse da quelle che, circa mezzo secolo dopo, avrebbero indotto il politologo a rispolverare dal proprio bagaglio intellettuale quelle lontane reminiscenze teologiche di cui i lettori del «Corriere» avrebbero assaporato i frutti. Il problema, allora, non aveva nulla a che fare con l’ingegneria genetica o con l’ausilio alla procreazione, ma attenevano piuttosto alla difesa della civiltà occidentale dalla minaccia del totalitarismo comunista, che pareva destinato ad allungare la propria ala dispotica sull’intero Vecchio continente. D’altronde, Democrazia e definizioni – il testo più famoso di Sartori, pubblicato dal Mulino nel 1957 e da costantemente ristampato (in varie edizioni) in tutto il mondo – era, senza dubbio, un testo di teoria politica, in cui si ponevano le basi di una teoria della democrazia competitiva, ma era anche, al tempo stesso, una sorta di pamphlet anticomunista, che puntava a mostrare come dietro la formula della «democrazia popolare» si celasse una realtà assai poco democratica. E anche la riflessione sulla «natura umana» dell’allora giovane studioso muoveva dalle medesime urgenze polemiche.
Dopo aver approfondito la filosofia politica di Benedetto Croce, Sartori abbandonò progressivamente il terreno della riflessione filosofica per spostarsi verso lo studio dei fenomeni politici. Anche in seguito al proprio soggiorno negli Stati Uniti, cominciò a dedicarsi al ruolo della propaganda politica, e soprattutto alle conseguenze che poteva avere – sulle società occidentali – la propaganda comunista. Ponendosi questo problema, Sartori non poteva che considerare criticamente la gran parte degli studi americani, principalmente perché – rivolti soprattutto alla propaganda elettorale nella democrazia statunitense (oltre che, ma in misura minore, alla propaganda bellica) – questi studi sottovalutavano le reali capacità di manipolazione che un regime totalitario avrebbe potuto sfruttare. In altre parole, secondo Sartori, questi studi affrontavano la propaganda tradizionale, che però investiva solo «la zona tipicamente variabile e superficiale della spiritualità umana» (G. Sartori, Natura umana, verità, propaganda, in «Studi politici», 1952, n. 2, p. 201), mentre trascurava del tutto le potenzialità di quella che definiva come la propaganda «psicagogica». Era proprio nel corso di questa discussione che Sartori si imbatteva nel problema di definizione della «natura umana». Volgendosi contro il «mito della natura umana» (cioè contro l’idea che le caratteristiche psicologiche dell’essere umano siano sottratte all’azione degli agenti storici) e contro la «teoria degli istinti» (fondata su un esplicito accostamento tra la vita umana e la vita degli altri animali), Sartori sosteneva come l’«uomo» fosse «in maniera decisiva e pregiudiziale un ‘essere interpretante’, che vive di interpretazioni, è ciò che interpreta, sta in interpretazioni» (p. 210). Benché fino ad allora, l’essere umano, almeno nell’esperienza occidentale, si fosse configurato come un soggetto autonomo, non era però da escludere in modo aprioristico che il tipo emergente di propaganda non potesse intaccare quel patrimonio storico erroneamente confuso come «l’essenza dell’uomo». In sostanza, Sartori cercava di dimostrare come la qualità dell’«uomo-soggetto», come animale simbolico, ragionante e capace di discussione razionale, non fosse connaturata necessariamente all’essere umano, ma costituisse piuttosto l’eredità di un lungo processo storico: un’eredità che, pertanto, poteva anche essere minacciata dal venir meno di quelle condizioni in cui l’autonomia del «soggetto» si forma, dando così origine a un inquietante «uomo-oggetto».
Il punto qualificante del ragionamento di Sartori era in fondo lo stesso che sarebbe riemerso più di cinquant’anni dopo, nella discussione sullo statuto dell’«embrione». L’elemento cruciale che distingueva l’«essere-come-soggetto» dall’«essere-come-oggetto» stava infatti nella capacità simbolica e comunicativa dell’uomo, e soprattutto nell’esercizio concreto di una simile capacità. «Si deve intendere che l’uomo», scriveva infatti Sartori, «non è un ‘essere-come-soggetto’ in virtù di un fiat originario», e, inoltre, che «è un ‘non-animale’ nel senso che si profila come essere capace di porsi come ‘soggetto’» (p. 223). E soprattutto, aggiungeva, «si deve intendere che arbitro di questa alternativa (che cimenta l’evoluzione storica del genere umano), è la comunicazione simbolica, che pone l’uomo come l’essere permeato dall’ambiente culturale, istituito dal suo conversare, apprendere, trasmettere» (ibidem). Da questo punto di vista, era chiaro che l’«essere umano» non derivava il proprio carattere «umano» dalla propria stessa esistenza o da elementi ‘naturali’. L’elemento dirimente era piuttosto la capacità di istituire un rapporto con la «verità»: una «verità» da intendersi non in termini spirituali, ossia come una «Verità» superiore, ma soltanto come la «verità» quotidiana, ossia come l’attitudine a verificare empiricamente una determinata percezione, a ordinare strutturalmente quell’elemento di certezza, all’interno di una costante dinamica comunicativa con i propri simili. L’«uomo-soggetto» si qualificava allora pienamente solo nel rapporto «uomo-verità»:
In questo rapporto la verità antropogenetica si attesta come una certezza – che non è più solo psicologica – che acquista una tale forza e stabilità da diventare personale ed autonoma: è la verità che non si sostituisce solo per via ricettiva – di «input» (messo dentro) – ma a seguito di un processo di verificazione-sistematizzazione. E sarà inutile dilungarsi a dimostrare l’ovvia interferenza che se ne ricava: che una autoconsapevolezza autonoma è istituita proprio e soltanto da questo rapporto uomo-verità; e che in assenza di verità antropogenetica si dà solo una consapevolezza eteronoma (p. 230).
prendiamo il caso di un minorato, in particolare di un sordomuto (minorato, appunto, nei confronti della più tipica dimensione simbolica). Il sordomuto è un essere umano che per una infermità fisica è incapacitato ad esistere per suo conto come genuino «soggetto». Perché? Credo che la giusta risposta sia che per il sordomuto il presupposto che abilita l’uomo ad essere autenticamente un «soggetto», dico la relazione uomo-verità, non può efficacemente instaurarsi (Natura umana, verità, propaganda, cit., pp. 224).
Benché ripugni alla sensibilità di molti, il ragionamento di Sartori aveva evidentemente radici profonde e antichissime. Inoltre, alla base di quella argomentazioni stavano i medesimi presupposti che orientano la posizione di Sartori sull’embrione e sulla definizione della ‘vita umana’. Negli interventi degli anni Cinquanta, non è infatti troppo complicato ritrovare il presupposto che oggi conduce verso l’idea che l’embrione – in quanto privo di linguaggio, in quanto incapace di comunicazione – risulta privo di quelle caratteristiche – eminentemente ‘culturali’ – che rendono l’essere umano effettivamente «umano». Il ragionamento del politologo non è ovviamente privo di incongruenze, perché non è chiaro se l’elemento qualificante della vita umana sia dato dalla capacità o dall’esercizio di autocoscienza, e se l’assenza di tale autocoscienza – per causa, per esempio, di patologie congenite – debba dunque configurare una vita ‘non qualificata’, e priva delle garanzie (anche giuridiche) accordate alla salvaguardia degli esseri umani. È questa, per esempio, l’obiezione di don Roberto Colombo (L’embrione è vita, per logica non per fede, in «Corriere della Sera», 3 marzo 2005), cui Sartori replica seccamente: «Come ho già spiegato, l’attributo della consapevolezza denota una capacità. Se questa capacità viene addormentata o si atrofizza, una persona umana che è già tale, tale resta. La logica è uno schema che di volta in volta si applica a dei concetti» (p. 239). Ma è ancora più significativa la risposta all’obiezione secondo cui, in virtù di tale ragionamento, «un ritardato mentale o anche un neonato non sarebbero mai, o ancora, un essere umano»: «Obiezione pretestuosa» – affermava, abdicando al rigore stringente della logica in favore del luogo comune – «perché le definizioni precisano categorie e sono contenitori concettuali. Non sono strumenti contabili e non occorre che acchiappino tutto e tutti; basta che identifichino e, appunto caratterizzino» (p. 243). Ma, evidentemente, è proprio nella determinazione di quello ‘spazio grigio’ – lo spazio che i contenitori concettuali non «acchiappano» - che nascono i problemi principali. E, soprattutto, è dentro questo spazio che si colloca il cuneo del potere.
(Segue)
Damiano Palano
Continua:
La soglia biopolitica 2/4
In questo post si parla di:
Giovanni Sartori, Il Paese degli struzzi. Clima, ambiente, sovrappopolazione, Edizioni Ambiente, pp. 271, euro 17.50.