Dopo la fine della Guerra fredda, il Mediterraneo ha conquistato una posizione centrale nella politica internazionale, non soltanto perché quest’area è tornata ad essere uno degli ambiti di conflitto principale. Più precisamente, come sostengono Brighi e Petito nell’introduzione al volume, il Mediterraneo è infatti diventato «un luogo paradigmatico di quella crisi spaziale e di rappresentazioni geopolitiche che caratterizza il sistema internazionale del dopo Guerra fredda» (p. IX). A dispetto di questa importanza, e del ruolo economico-politico che ha rivestito nel passato, il Mediterraneo, salvo alcune eccezioni rilevanti, non è stato considerato in modo sistematico (almeno nel contesto italiano) dagli studi di politica internazionale. Questo volume si pone proprio l’obiettivo di iniziare a colmare questa lacuna, presentando una serie di contributi concentrati su differenti aree tematiche. In particolare, il volume è suddiviso in tre sezioni. La prima considera il Mediterraneo nella contemporanea congiuntura internazionale, con tre contributi che si soffermano sul processo di democratizzazione (Joseph Maïla), sul rapporto fra Islam e democrazia (John L. Esposito), sugli equilibri strategici regionali in Medio Oriente (Fred Halliday), sui riflessi in quest’area dei cambiamenti sistemici del post 11 settembre (Alessandro Colombo). La seconda estende invece lo sguardo al ruolo degli Stati Uniti, con un’analisi delle aspirazioni egemoniche americane nell’area medio-orientale (Vittorio E. Parsi), un esame delle relazioni fra Nord e Sud, condotta con l’ottica della teoria dell’imperialismo e della dipendenza economico-politica (Samir Amin), e con due saggi sulla percezione del dialogo e del confronto fra Occidente, Islam e Mediterraneo (Christopher Coker e Mark Levine). Infine, l’ultima sezione prende in considerazione il ruolo dell’Unione europea nei confronti del Mediterraneo e presenta saggi di Alvaro de Vasconcelos, Joseph A. Camilleri, Christopher Hill e Roberto Aliboni.
Ognuno dei contributi sviluppa ovviamente una prospettiva specifica, e il volume accoglie così una pluralità di posizioni non sempre convergenti (anche se per questo non del tutto incompatibili). Ciò nonostante, i diversi fili del volume vengono tenuti insieme da una serie di ipotesi e di obiettivi ben precisi, esplicitati con chiarezza dai due curatori. L’idea di fondo è infatti che il Mediterraneo sia al centro di un processo di ridefinizione politico-strategica, intorno alla quale è possibile individuare i tratti di due opposte ‘immagini’ e, dunque, di due diverse (e opposte) visioni geo-politiche, l’una avanzata in modo piuttosto coerente dagli Stati Uniti e l’altra implicita nella politica estera dei paesi dell’Ue. Secondo gli Usa, il Mediterraneo è, in quanto area geopolitica, sostanzialmente inesistente, perché – scrivono Brighi e Petito – nella visione americana il Mediterraneo entra solo (paradossalmente) come componente del Golfo Persico, o come area limitrofa al Golfo Persico: «in altre parole, l’idea di Grande Medio Oriente rappresenta quella costruzione geopolitica americana dell’area del mondo musulmano che va dall’Afghanistan al Maghreb e il cui baricentro strategico è nel Golfo» (p. XIII). Per quanto concerne l’Europa, il Mediterraneo acquista invece una significato ben diverso, e a partire dagli anni Novanta la necessità di avviare una nuova politica nei confronti di quest’area viene favorita dai flussi migratori, dalle conseguenze dell’instabilità politica, oltre che dalla presenza nell’immaginario europeo dell’idea dello ‘scontro’ fra Oriente e Occidente (che proprio nel Mediterraneo emergerebbe con maggior forza). In questo quadro, i paesi europei tendono a formulare una visione strategica centrata sul Mediterraneo come «spazio più ampio di cooperazione politica, economica e culturale» (p. XIV). Una delle ipotesi principali del volume è, dunque, che ci sia una divergenza di interessi radicale fra la rappresentazione geo-politica del Grande Medio Oriente e quella dello spazio Euro-Mediterraneo. Una divergenza che spiega anche perché, proprio in relazione al Medio Oriente, siano emerse nel corso degli ultimi anni le più marcate fratture fra Stati Uniti e paesi europei. «Le tensioni transatlantiche che sono seguite alla decisioni di invadere l’Iraq», scrivono per esempio Brighi e Petito, «non sono, da questa prospettiva, riconducibili principalmente all’‘eccezione’ dell’amministrazione Bush, ma sono il riflesso di una oggettiva e crescente divergenza di interessi (e visioni geo-strategiche) rispetto alla regione mediterranea e del Medio Oriente nell’alveo della comunità Euro-Atlantica» (p. XVI). In questa prospettiva, l’11 settembre 2001 innesca un’ulteriore contrapposizione fra Usa e Ue, che si delinea in relazione alle prospettive e ai modi con cui fronteggiare il terrorismo. Ma – e questa è l’idea senza dubbio più forte di Brighi e Petito, su cui è oggi necessario iniziare a sviluppare un dibattito – l’11 settembre non è la ‘causa’ della ‘crisi’ nei rapporti fra Usa ed Europa, ma piuttosto un momento che fa emergere una divaricazione sostanziale e strutturale. Una divaricazione che oppone l’una all’altra due visioni – quella del Grande Medio Oriente e quella dell’Euro-mediterraneo – non solo opposte, ma «sempre più incompatibili» (p. XVII).
Damiano Palano
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