di Damiano Palano
Dinanzi allo spettacolo spesso indecoroso offerto dalla comunicazione politica contemporanea è quasi inevitabile guardare nostalgicamente alla Prima Repubblica. E, forse, riabilitare persino il bistrattato ‘politichese’, il linguaggio bizantino della vecchia classe politica, diventato nel tempo il simbolo negativo del ‘Palazzo’. Per quanto sia un sentimento nobile, la nostalgia non è però uno strumento analitico affidabile. Non solo perché tende sempre a mitizzare il passato, ma anche perché, spesso, non consente di comprendere pienamente la logica delle trasformazioni storiche. Non cede infatti alla tentazione della nostalgia il recente volume di Carlo A. Marletti, La repubblica dei media. L’Italia dal politichese alla politica irreale (Il Mulino, pp. 153, euro 15.00), nel quale vengono esaminati, in modo sintetico ma efficace, gli impetuosi mutamenti comunicativi del nostro sistema politico.
Tra i pionieri degli studi di comunicazione politica, Marletti punta innanzitutto a ricostruire la logiche che avevano alimentato la nascita e il consolidamento del ‘politichese’. Non si trattava solo di una questione di tecnologie, perché già la campagna elettorale del 1948 fu un evento di vera e propria politica-spettacolo, che vide l’utilizzo di strumenti piuttosto raffinati e di uno scontro dai toni quantomeno aspri. La comunicazione ‘extra-elite’, fra élite e cittadini, non fu dunque del tutto assente. Progressivamente, dopo le elezioni del ’53, prese però a diventare sempre più rilevante la comunicazione ‘intra-élite’, ossia la comunicazione che si svolge prevalentemente all’interno della classe politica e fra le sue diverse componenti. A favorire questa trasformazione fu in larga parte il contesto sistemico. «Quello su cui si reggeva la democrazia italiana nella Prima Repubblica», scrive infatti Marletti, «era un equilibrio molto fragile, che poteva incrinarsi a ogni pie’ sospinto, causando tensioni sociali e aggravando i rischi di contraccolpi autoritari». I politici erano dunque costretti a preferire l’allusione all’esplicitazione del dissenso (o della minaccia). E si trovarono perciò a elaborare quel raffinato politichese – affollato di incisi, desuete figure retoriche e persino di ardite sperimentazioni geometriche – che ci appare oggi come una lingua morta e spesso inafferrabile.
Venute meno le condizioni sistemiche (nazionali ma soprattutto internazionali) della Prima Repubblica, il politichese tramonta insieme alla classe politica che ne aveva fatto un emblema, prima ancora che uno strumento. Anticipata da Pertini, Craxi e Berlinguer, la personalizzazione della politica fa il suo impetuoso ingresso dopo la crisi di Tangentopoli. Quella che fa irruzione con la Seconda Repubblica è, evidentemente, una comunicazione tutt’altro che auto-referenziale. Punta soprattutto a strappare al campo avversario i voti degli indecisi e a mobilitare gli elettori tendenzialmente apatici facendo leva su un forte appello emotivo. E usa, inoltre, un linguaggio fortemente centrato sull’annuncio, sull’inflazione di promesse che inevitabilmente rischiano di rimanere lettera morta, ma che riescono comunque a orientare il dibattito e a conquistare l’attenzione dei media.
È probabile, come osserva Merletti, che gli ‘effetti-annuncio’, soprattutto se non vengono seguiti da risultati concreti, finiscano prima o poi con l’indebolire la fiducia nei confronti della classe politica e delle istituzioni. Ma la mediatizzazione rimane comunque un fenomeno irreversibile. E più che sperare di invertire la tendenza, sarebbe opportuno escogitare nuovi contrappesi che tengano conto delle trasformazioni reali.
È in fondo proprio a questo insieme di mutamenti che è dedicato anche Il partito personale. I due corpi del leader (Laterza, pp. 166, euro 12.00), un’agile ma densissimo testo di Mauro Calise. Nella prima edizione del libro, apparsa nel 2000, Calise scorgeva i tratti della metamorfosi subita dai partiti e dalla politica italiana dopo Tangentopoli. Dieci anni dopo, nella nuova edizione, il ‘partito personale’, esemplificato dalla nascita di Forza Italia, non è più un’anomalia. Attorno a sindaci e presidenti di regione sono cresciuti piccoli partiti personali, spesso informali ma radicati nei circuiti territoriali, mentre anche a livello nazionale i partiti costruiti sui leader sono diventati la norma. E , infine, il meccanismo delle primarie ha rafforzato il processo di personalizzazione anche nello schieramento di centro-sinistra.
Si tratta probabilmente – anche secondo Calise – di un processo irreversibile, innescato da complessi mutamenti sociali e rafforzato dalle logiche comunicative. Ma non è certo un processo senza implicazioni inquietanti. Una delle quali sembra il ritorno, sulla scena politica, del corpo del capo. Se l’Occidente nel corso della sua storia ha costantemente cercato di ‘personalizzare’ le istituzioni, le trasformazioni contemporanee sembrano riconsegnare un ruolo centrale alla persona fisica del capo. La figura del leader – con il suo volto e il corpo, costantemente esibito sulla scena pubblica – diventa lo strumento più affidabile per la ricerca del consenso. Ma, in questo modo, avverte Calise, le nostre democrazie si spingono sull’orlo di un abisso di cui sono ancora inconsapevoli. Perché, mentre riaffiora il corpo del capo, tende a dissolversi il «corpo politico» della comunità. Quella sorta di luogo impersonale in cui la modernità europea ha condensato i tratti dell’identità collettiva e dell’autorità legittima.
Damiano Palano
Carlo A. Marletti, La repubblica dei media. L’Italia dal politichese alla politica irreale, Il Mulino, pp. 153, euro 15.00.
Nessun commento:
Posta un commento